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Pronte per gli addobbi del 25 novembre?
17 Novembre 2022
Le giornate, le settimane, gli anni internazionali, sono dei momenti in cui l’attenzione dell’opinione pubblica viene attirata su specifiche tematiche che hanno un respiro globale. Lo scopo è quello di diffondere la consapevolezza relativamente ad uno specifico problema che riguarda l’intera umanità, ma anche di celebrare delle conquiste, per rendere la popolazione partecipe e attiva rispetto a ciò che indistintamente riguarda ognuna/o di noi. Visitando la pagina delle Nazioni Unite dedicata alle giornate internazionali è possibile scoprire quante ne sono state riconosciute, per quali ragioni, con quali obiettivi.
Potrete capire, o approfondire, il meccanismo che porta all’individuazione delle giornate, quali sono gli organi preposti alla loro designazione, cosa sono le risoluzioni. Oltre ad accrescere la vostra consapevolezza e saziare una sana curiosità, potrete avere una qualche risposta pronta per il commentatore social colpito da “analfabetismo funzionale severo” misto a “misoginia cronica irreversibile”, laureato presso l’Università della vita con Master presso la Scuola della strada che, in occasione del 25 novembre riterrà di dover porre sotto a ogni evento il rituale quesito “E la giornata contro la violenza delle donne agli uomini?” che incontrerà immancabili apprezzamenti di basso livello dei quali però si vanterà come se avesse scritto un trattato di storia contemporanea che potrebbe fruttargli un Nobel. Oppure potrete sempre acquisire le risorse per poter gestire il pranzo di Natale, spiegando all’immancabile parente che vi fa notare che “ora con questa storia della violenza stiamo esagerando” un piccolo dettaglio che forse trascura, ovvero che le giornate internazionali non vengono individuate durante una gara di rutti in osteria. Potete anche praticare autodifesa femminista, non rispondendo assolutamente nulla, e lasciare che l’avvizzimento dei loro neuroni segua il suo naturale decorso.
Riguardo il 25 novembre, per esperienza diretta e tristemente condivisa con tutte le attiviste di ogni epoca e angolo di mondo, riscontro l’esistenza di due insopportabili atteggiamenti estremi di cui faremmo volentieri a meno ma che sembrano moltiplicarsi anziché estinguersi: il primo è rappresentato dagli esempi che ho riportato sopra, che in certe occasioni fanno seriamente accarezzare l’idea della misantropia come stile di vita per non doversi imbattere in certa mediocrità, che talvolta viene definita come battuta di spirito e noi dipinte come donne che non stanno allo scherzo; l’estremo opposto invece è caratterizzato da quella immensa prateria di gran parte di organizzazioni, partiti politici, istituzioni, parte della società civile, del settore pubblico e privato, della sanità, delle forze dell’ordine, che per il resto dell’anno vivono in un profondo letargo praticando indifferenza o peggio le ben consolidate pratiche sessiste e patriarcali per non rischiare di mettere in discussione un sistema che garantisce la loro sopravvivenza.
Però c’è quel momento dell’anno, il 25 novembre e dintorni, in cui costoro esplodono come gli addobbi a Natale: e allora è tutto un pullulare di scarpette rosse, manifesti, aforismi e profili social modificati all’uso, promozione di corsi di autodifesa tenuti da forzuti uomini che spesso sono i commentatori social di cui sopra, e la corsa al comunicato stampa più bello e femminista possibile da parte di rappresentanti istituzionali che però poi organizzano iniziative politiche dove le uniche donne sono quelle che portano loro la bottiglietta dell’acqua.
Immancabili sono i dibattiti le giornate istituzionali dai titoli più imbarazzanti:
“Curiamo la violenza”
“L’amore malato”
“Se ti ama non ti picchia”
“Le donne non si toccano neanche con un fiore”
durante i quali si pratica l’othering più sfrenato, quasi da competizione: le donne che subiscono violenza sono tutte quelle poverette deboli, prive di carattere, che le donne forti, centrate e realizzate hanno il compito di proteggere. Avete mai notato il paternalismo con cui si tengono certi eventi?
Io ho visto di peggio: alcune consigliere comunali- coraggiose paladine dei valori della famiglia tradizionale – che, per promuovere il corso sull’uso dello spray al peperoncino che salva da ogni maltrattamento – si, un corso per spruzzare lo spray al peperoncino – si sono fatte fotografare in una posa alla Charlie’s Angels, più o meno come quella che vete qui accanto. Ho provato un sincero imbarazzo io per loro, e a ripensarci lo provo ancora oggi: perché hanno certamente pensato che la violenza si risolva con lo spray al peperoncino, e ne sono convinte.
Nessuno di questi eventi o di queste sporadiche iniziative che comportano solo la visibilità di chi le pensa, porta con sè parole di riflessione, di introspezione, di analisi. La parola “autocoscienza” non trova alcuno spazio in questi contesti, in cui le femministe sono ben accolte se stanno nei sette minuti di intervento assegnato e se non introducono elementi di critica verso quel preciso contesto che concede loro la parola. Nessun passo azzardato è previsto o permesso al di fuori del recinto delle parole istituzionalizzate, concordate, cantilenate.
Una volta, durante un consiglio comunale in occasione del 25 novembre, mi sono trovata di fronte a questa scena raccapricciante: mentre delle compagne intervenivano sul tema, di certo con parole incomprensibili ai presenti, io ero seduta dietro a due consiglieri. Uno di loro leggeva tranquillamente il Corriere dello Sport commentando le notizie senza azzeccare la coniugazione di un verbo neanche per puro caso, oltre che con un tono di vose assolutamente non curante dell’evento in corso; l’altro, nel frattempo, prendeva appunti sul 25 novembre da Wikipedia per l’intervento che di lì a poco avrebbe fatto. Sembrava di aver visto abbastanza, quando improvvisamente intervenne un consigliere dai banchi opposti, con parole di condanna contro ogni violenza alle donne: “oh bene” penserete, “non sono mica tutti uguali”…e infatti, non lo sono, perché il consigliere in questione era piuttosto noto per avere usato violenza verso le partner avute nel corso della sua miserabile esistenza. Quando una di noi gli ha fatto notare che forse poteva evitare di intervenire, lui ha risposto con un ghigno che caratterizza la sua mimica facciale da sempre: quello del coglione.
Sempre nella grande prateria che sta a questo estremo delle celebrazioni del 25 novembre, ci sono le campagne mediatiche e di comunicazione sociale di un certo livello: occhi neri, visi tumefatti, sguardi bassi, donne rannicchiate in mutande in un angolo che cercano di proteggersi con le mani, o che corrono nel buio di una strada deserta per fuggire dalla violenza; inviti agli uomini a non agire violenza verso le donne perché sono madri, zie, nonne, figlie; e ancora appelli a denunciare “subito!” la violenza. Quindi, la violenza nei confronti delle donne è questa: la raccontiamo solo attraverso le botte….ma se hai lo spray al peperoncino e tutta un’altra storia, e anche se impari a tirare quattro cazzotti come si deve, è tutta una questione di velocità e prestanza fisica, dicono le Charlie’s Angels. Tutto sommato non è complicato: se si mette male si va a fare una denuncia e la vita prende tutta un’altra strada, verso la libertà. Che poi se hai dei figli sarai doppiamente protetta, diamine. Però, devi avere un occhio nero, uscire di casa in mutande, avere collezionato un certo numero di lividi. Questo è il messaggio. Per quanto, io di donne uscite di casa fracassate di botte, che hanno messo in salvo i figli, che sono dovute fuggire senza neanche le mutande addosso, ne ho viste parecchie. Stanno ancora lì, dopo anni, sotto la lente di ingrandimento di assistenti sociali, Tribunali penali, civili, minorili, consulenti tecnici che contano anche i metri quadri della casa in cui vivono con i propri figli, quando questi non vengono allontanati con la forza e loro trattate come criminali; ho anche conosciuto Giudici onorari che, per calmare le ire di padri violenti, costringono i figli a incontri protetti che di protetto non hanno nulla visto che avvengono quando non è stata emessa alcuna sentenza; ma proteggono certamente i Giudici dalle seccature. Ho ascoltato il Presidente di un Tribunale dei minori affermare che spesso i casi di violenza – che lui chiama conflitti – si possono risolvere con un mazzo di fiori e che il compito dei Tribunali e anche quello di riconciliare. Tutto molto bello. La Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia per la prassi diffusa nei tribunali civili di considerare le donne vittime di violenza domestica che non adempiono all’obbligo di effettuare gli incontri dei figli con il padre e che si oppongono all’affidamento condiviso come “genitori non collaborativi” e quindi “madri inadatte” meritevoli di punizione. E questa è l’ultima delle condanne ricevute in materia.
Immagino le nottate passate a pensare ai messaggi di campagne sociali, alle iniziative, a come poter sfruttare il potere della comunicazione per poter porre fine alla violenza contro le donne. Un lavoro estenuante, che porta allo sfinimento, un fattore di stress non indifferente. Ci sta che alla fine ci si possa dimenticare di parlare della causa del problema, ovvero dell’uomo che sta dietro l’obiettivo che fotografa la donna rannicchiata, di quello che insegue la donna che scappa per la strada, delle forze dell’ordine che raccolgono la denuncia, dei giudici che non applicano misure adeguate attraverso strumenti ben definiti che hanno a disposizione, dei servizi sociali che trattano le donne come prive di ogni capacità di discernimento e autodeterminazione, della politica che strumentalizza tutto a proprio piacimento e in nome del consenso elettorale, del boicottaggio dell’educazione al genere nelle scuole – che non sia mai i bambini e le bambine possano coltivare la messa in discussione della cultura patriarcale – dell’elemosina ai Centri Antiviolenza, del non riconoscimento del lavoro nei luoghi delle donne – qui ribadisco la necessità della nostra autocritica in primis – dell’attacco ai diritti sessuali e riproduttivi, della negazione del linguaggio di genere, del silenziamento di ogni discorso sul diritto all’autodeterminazione a favore di discorsi centrati sul trittico Dio-patria-famiglia come uniche ragioni di esistenza.
Ma si, certamente chi lavora così affannosamente durante i giorni e le notti che precedono il 25 novembre, può facilmente dimenticare di inserire nella narrazione un pezzettino così insignificante. Un bel faccino, un occhio nero-verdognolo, paura-tanta-paura, un “no-no-no non si fa”, e pure ‘sto 25 novembre l’abbiamo superato, no?
Poi tanto, così come a Natale gli addobbi terminano con il puntale – o la stella cometa – in cima all’albero, per il 25 novembre si tira fuori una bella panchina rossa e tutti/e diventiamo più buoni/e.
La panchina rossa originariamente stava a simboleggiare il posto vuoto lasciato da una donna morta per mano di un uomo: un monumento civile contro la violenza alle donne, un monito alla società perché non continui a vivere la propria quotidianità nell’indifferenza, perché attraversando lo spazio pubblico ci si renda consapevoli del fatto che le vite di troppe donne vengono cancellate in nome del patriarcato, che quelle vite non potranno mai più attraversare quello spazio e sedersi su una panchina. Non esiste un’altra lettura possibile riguardo la violenza contro le donne. Un panchina rossa rappresenta questa realtà, non un’altra. Pertanto farsi carico della sua installazione porta con sé la messa in discussione della cultura patriarcale, l’ammissione di un fatto storico, la volontà di mettere in discussione quel modello. Per me è chiaro, mi auguro lo sia anche per chi mi sta leggendo, ma nel corso degli anni l’installazione di una panchina rossa in ogni dove, è diventata come la collocazione del puntale/della stella cometa in cima all’Albero di Natale: una frase di cordoglio – che includa possibilmente le parole “piaga sociale”, “emergenza”, “protezione” e “mai più” – un mazzo di fiori, le foto da mandare ai giornali, e anche il sindaco fascista, il consigliere maltrattante, l’assessore molestatore, il dottore antiabortista, il carabiniere omofobo, possono dire di avere fatto la loro parte.
La panchina resta lì, e il patriarcato vi si siede sopra a leggere il giornale.
Manca solo di vedere una panchina posta in bella vista per il 25 novembre che viene rimossa la sera stessa. Come dite? Sarebbe proprio il colmo? Non si può finire così in basso?
Ho già scritto che, per quanto io non abbia alcuna stima di chi ha amministrato la città prima delle ultime elezioni, negli ultimi anni siamo giunte/i al di sotto del livello di raschiamento del barile, e che lo spessore culturale è quello della sfoglia di pasta fillo. Dunque, tenetevi forte: il 25 novembre dello scorso anno, al termine della manifestazione per la giornata internazionale, mi sono intrattenuta con una vecchia amica sotto al palazzo comunale. La manifestazione si era velocemente dispersa, a causa della pioggia e di un leggero freschetto. Mentre parlavamo, ci siamo dovute spostare per far passare un Suv che entrava a retromarcia nel chiostro del palazzo, dal quale uscivano alcune dipendenti comunali che trasportavano la panchina rossa che era stata messa all’ingresso del Comune! Io ho sinceramente pensato di avere le traveggole. Erano le 18.30 del 25 novembre! Non potevo credere ai miei occhi…eppure stava accadendo. Forse qualcuna aveva portato la panchina da casa…e se la stava portando via. Era una panchina un po’ più piccola dello standard, altrimenti non sarebbe entrata in un Suv. Non ho potuto fare a meno di immaginare quali grandi manovre avranno dovuto mettere in campo per trovare una panchina in prestito per una mezza giornata. Non ho potuto fare a meno di ridere delle dipendenti comunali che si sono prestate a questa ridicola messinscena, fuori dall’orario di lavoro, perchè il Sindaco inaugurasse una panchina rossa a tempo. . Una amara risata.
L’appropriazione dei simboli produce questi effetti: li svuota, li ridicolizza, li sposta a proprio piacimento. Rifiutarci di partecipare ad ogni inaugurazione di panchina rossa, far notare pubblicamente l’incoerenza di chi ne fa un uso puramente mediatico, prendere la parola senza alcuna esitazione, sono gli strumenti che abbiamo a disposizione. Sono i nostri strumenti di potere, e se ci sentiamo a disagio nell’utilizzarli, vincono loro. Le panchine di ogni colore, mi duole dirlo ma lo dico con convinzione, sono diventate la pacca sulla spalla in materia di diritti umani.
Sono consapevole che anche per questo 25 novembre dovrò assistere alla disseminazione delle panchine rosse a favore di telecamere e obiettivi, accompagnate da sorrisi che celano il ghigno con cui l’oppressore si convince di mantenere il controllo…sento il suono della pacchetta…pat pat….
Potrete non essere d’accordo con me, ne avete il diritto. Ma sinceramente spero che anche voi, come me, sentiate il mio stesso bisogno rinunciare alle pacchette sulle spalle. Lo Stato taglia continuamente i fondi ai Centri Antiviolenza, il nuovo Governo neanche li nomina, le amministrazioni comunali chiudono, boicottano, mettono a bando le Case delle donne, le Regioni ci impediscono di abortire, come possiamo stare a loro fianco mentre celebriamo una giornata che esiste per ricordare al mondo intero che loro sono i nostri carnefici? Come possiamo accontentarci del fatto che siano al nostro fianco per inugurare una panchina, simbolo delle morti causate dalla loro stessa complicità? Scusate, ma anche basta. Un contro è cercare delle alleanze, ben altro è dare visibilità a chi nega la nostra esistenza, e lo fa anche con i nostri soldi.
Spero che, come me, non riusciate a trattenere l’emozione nel sentirvi parte di quella moltitudine di donne unite nella sorellanza che ci ha rese forti, indomabili, spaventose, talmente spaventose da dover controllare anche le nostre parole nello spazio pubblico. Allora gridiamo più forte, ovunque ci troviamo.
Se siete arrivate/i fino alla fine di questo mio sermone su “25 novembre e cerimonie prive di utilità”, nella mia sezione News troverete invece tutte le informazioni che riguardano il 25 novembre vissuto, organizzato, gestito dai movimenti delle donne.