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Aurora Tamigio: Il cognome delle donne

Tempo di lettura: 4 minuti

Un incontro casuale quello tra me e il romanzo d’esordio di Aurora Tamigio “Il cognome delle donne”: in una libreria, all’interno di un ospedale. Non so se sono io a cercare librerie o se siano le librerie a cercare me, fatto sta che me le ritrovo sempre di fronte, in ogni luogo. E va bene così, perché fungono un po’ da viaggio nel Paese delle Meraviglie e pausa da tutto il mondo fuori che continua a scorrere e nel quale faccio sempre più fatica a mescolarmi. Pensavo, entrando, a quanto sarebbe bello se ogni Ospedale avesse una libreria al suo interno, una biblioteca, uno spazio accogliente per poter trascorrere del tempo tra le storie che fanno scorrere le attese e ispirano nuovi approcci alla vita. Ogni ospedale, dal più piccolo al più grande, perché quello di cura è un concetto molto vasto, che non passa solo attraverso la somministrazione delle terapie.
Facevo un giro, e i miei occhi sono caduti su “Il cognome delle donne”, un tema che da sempre apre un mucchio di interrogativi nella mia mente. E uno di questi è riportato proprio in quarta di copertina

“Lo sapete, vero, che il cognome delle donne è una cosa che non esiste. Portiamo sempre quello di un altro maschio”
“Comincia tu a tenerti il tuo, e poi si vede”

È una riflessione che mi trovo spesso a fare, soprattutto quando in situazioni in cui le donne ci tengono tanto a presentarsi con il nome del marito, e mi dico “ma non è già abbastanza che da sempre portiamo quello dei padri? Non è abbastanza che sia l’ordine dell’uomo ad averci dato l’identità, quando è la donna che ci ha dato la vita?”. Resto seriamente perplessa, soprattutto quando a sentirsi finalmente “la signora Pincopallo” sono le giovani donne o le mie coetanee, forzando anche una regola che non esiste, ovvero l’acquisizione del cognome del marito. “Allora sto patriarcato ce lo dobbiamo tenere” mi viene da dire. Poi mi taccio, esercizio di autodifesa.

Mai avrei immaginato di essere tanto presa da leggerlo anche a notte fonda, in quei momenti di insonnia in cui di solito faccio tutti i miei – inutili – esercizi di respirazione per riprendere sonno. Con la lucina sul libro, ho trascorso ore immersa in questo romanzo familiare, che ripercorre la nostra storia attraverso le vite delle donne discendenti da una stessa famiglia dell’entroterra siciliano.
La prima di loro è Rosa, matriarca coraggiosa con il vissuto di figlia educata dal padre secondo la legge degli uomini che mantenevano il controllo a suon di botte.

Il padre di Rosa, Pippo Romito, diceva sempre che “a fimmina…..è comu ´a campana: si ´un ra scotuli ùn sona”. E lui, da che Rosa era abbastanza grande per prenderle, non aveva fatto altro che suonarle a lei e sua madre.

La legge degli uomini prevedeva anche che gli autorevoli medici uomini fossero complici di tanta violenza, e che le mediche donne fossero considerate delle streghe, con tutto il loro alone di mistero, perché solo attraverso la stregoneria potevano essere guaritrici.

Nel 1925 Rosa incontra Sebastiano Quaranta, e decide di fuggire con lui da tutto questo, lasciando dietro di sé quel mondo regolato dalla legge degli uomini per costruire un futuro che, attraverso questo racconto intenso e scorrevole, ci porta nelle vite delle donne della sua discendenza.

“Non aveva padre, madre o sorelle, perciò Rosa aveva trovato l’unico uomo al mondo che non sapeva come suonarle”

Con Rosa viviamo l’inizio e la fine della seconda guerra mondiale, l’epoca fascista, la prima volta al voto per le donne, la quotidianità di un Paese ridotto allo stremo e la nascita della Repubblica.

Nando si era fatto una risata amara. “Che scimunitaggini. In paese non c’è n’è mai stati di fascisti.”
“Ce n’è, ce n’è”, era scattata Rosa. “Si sono messi la camicia nera dentro le mutande ma, appena è tempo vedi come la tirano fuori.”

Da Rosa nasce Selma, e da Selma nascono Patrizia, Lavinia e Marinella: le loro storie si intrecciano con quelle di altre persone nel corso della storia, e ci accompagnano attraverso i cambiamenti di una società che in ogni epoca le mette di fronte a delle prove che affronteranno ognuna con la propria natura, restando unite e “resistenti”. Quel che lega le loro vite e lo scorrere del racconto è l’eredità femminile che viene tramandata attraverso anche i più piccoli gesti, gli oggetti, le parole e le abitudini. Sono storie in cui possiamo riconoscere i racconti delle nostre madri, delle nostre zie, delle nostre nonne, che ci portano indietro nel tempo e ci spingono a riflettere su quanto di quelle vite sia nelle nostre. Emozionante e vero.

Tre generazioni di donne ci restituiscono la consapevolezza di quanto ognuna di noi porti su di sé le vite delle proprie antenate, di quanto le loro scelte abbiano significato sulle nostre vite oggi, in un mondo che vuole in ogni modo imporci quella legge dell’uomo da cui Rosa è fuggita.
Un libro che dovrebbero leggere le tante persone che sono solite affermare che un tempo si stava meglio, perché c’erano valori solidi, e il rispetto in famiglia era vero anche nella povertà: quel rispetto era definito dalla legge degli uomini, e riguardava gli uomini. Per le donne erano i tempi in cui essere prese a cinghiate dal padre o dal marito era assolutamente normale, così come lo era il consiglio del medico di fare attenzione a non rovinarle o lasciare segni, giusto perché altrimenti non se le sarebbe prese nessuno e sarebbero state figlie da mantenere. Quella legge degli uomini l’abbiamo combattuta, la combattiamo ogni giorno ancora oggi. E ci tocca anche morire per questo, portandoci dietro il cognome di un uomo.
Iniziamo con il tenerci quello che abbiamo.

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