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Sorella, io ti credo (?)

Tempo di lettura: 5 minuti

Lo slogan “Sorella, io ti credo” nasce nel contesto delle proteste popolari in Spagna nel 2018, a seguito della controversa sentenza del caso “La Manada”. In questo processo, cinque uomini furono condannati per “abuso sessuale” e non per stupro di gruppo, nonostante la gravità delle azioni commesse. La sentenza scatenò indignazione e manifestazioni in tutto il Paese, durante le quali lo slogan divenne simbolo di solidarietà verso le vittime e di denuncia contro il sistema giudiziario percepito come ingiusto e patriarcale.
Un aspetto particolarmente significativo di questa vicenda fu il supporto delle suore carmelitane di clausura di Hondarribia. Con un post pubblico, si schierarono a fianco della vittima, sottolineando il diritto di ogni donna a vivere libera da violenze e giudizi, chiudendo il loro messaggio con lo slogan “Sorella, io ti credo”. Questo gesto ampliò il significato dello slogan, trasformandolo in un messaggio universale di fiducia e giustizia femminista
“Sorella, io ti credo” è molto più di uno slogan: è una chiamata alla lotta, una dichiarazione di solidarietà e un atto di resistenza. È un grido che risuona in ogni angolo del mondo, che ci unisce tutte in una rete indistruttibile di supporto, di amore e di giustizia. È il rifiuto della cultura patriarcale e il riconoscimento che ogni donna merita rispetto, protezione e voce.
Dire “Sorella, io ti credo” è un atto femminista che afferma il diritto delle donne a parlare, a denunciare e a vivere libere da violenze. È il nostro grido di battaglia per un futuro in cui la solidarietà tra donne diventi la norma e non l’eccezione. Perché ogni donna merita di essere creduta, ogni storia merita di essere ascoltata, e insieme, possiamo costruire un mondo più giusto.
Queste parole gridano una resistenza ferma e determinata contro il patriarcato. Il patriarcato, con il suo sistema di potere che storicamente ha marginalizzato, abusato e silenziato le donne, non si ferma di fronte alla verità. “Sorella, io ti credo” è una risposta a questa oppressione, una forma di protesta contro una cultura che non solo ha tollerato ma ha anche legittimato la violenza maschile.
Ogni volta che una donna racconta la sua storia, ogni volta che denuncia un abuso, lo fa in un contesto in cui la sua parola è messa in discussione. “Sorella, io ti credo” è un atto di sfida contro questa logica patriarcale che ci vuole invisibili, che ci nega il diritto di parlare. È un’affermazione di autonomia e di autodeterminazione, perché ogni donna ha il diritto di essere ascoltata senza paura di essere giudicata o ignorata. Credere alla testimonianza di una donna significa rifiutare la cultura della complicità maschile e costruire una società in cui la parola delle donne ha lo stesso valore di quella degli uomini.
Non si tratta solo di un’affermazione individuale: è un richiamo collettivo, un abbraccio visibile e potente di tutte le donne, che si uniscono per dire che siamo tutte dalla stessa parte. È una presa di posizione contro l’isolamento che la violenza genera, un invito ad abbattere la solitudine che spesso accompagna le vittime di abusi. Dire “ti credo” significa rifiutare la cultura dello stupro, la minimizzazione della violenza maschile e la tendenza a colpevolizzare la vittima. In questo semplice gesto, c’è la forza di una vera rivoluzione culturale.

E quando non “ci” crediamo?

Come attiviste femministe ci troviamo ad affrontare un sistema e delle istituzioni oppressive che esercitano il loro potere attraverso, ad esempio, l’assegnazione di scarse risorse agli spazi che cerchiamo di gestire per sostenere le donne che subiscono violenza. Questo genera uno stress che si aggiunge a quello che viviamo in una società patriarcale e antifemminista. Viene da sé che il pericolo di riprodurre le stesse violenze contro le quali lottiamo è dietro l’angolo, soprattutto se non investiamo tempo e risorse nella cura di noi stesse e dei nostri spazi. A volte questo non avviene perché le risorse non ci sono, a volte perché non si riconosce questa come una priorità. Nella riproduzione delle dinamiche di violenza, l’assenza di pratiche di cura di sé rappresenta una forma di controllo e di potere. Lo posso dire perché io sono stata una vittima di quella violenza, terribile e incancellabile, in uno spazio “sicuro”. Dopo di me, ne ho ascoltate altre. Perché lo accenno qui?
Perché ho immaginato di trovare rifugio sicuro in quel “sorella, io ti credo”, e di poter trovare tante donne dalla mia stessa parte, ad accogliere il mio vissuto. Ero parte di una comunità, avevo costruito letteralmente quella comunità, avevo creduto in quella comunità. Ho creduto in un cerchio pronto ad accogliermi. È accaduto ciò che ho visto accadere a molte altre donne: ho perduto il diritto di parlare, sono diventata invisibile e anche la mia storia, tutto ciò che avevo costruito, erano stati cancellati. Sono stati cancellati. Non ho udito una sola voce alzarsi per me, ho invece visto tanti volti accanto a chi mi aveva così profondamente uccisa. Avevo messo in discussione qualcosa che era più utile di me in un sistema che doveva funzionare a prescindere da me, non importava cosa fosse accaduto a me. Chi ha osato offrirmi la sua incondizionata solidarietà non ha avuto vita facile, questo rischio non lo hanno corso in molte! Perché la cultura patriarcale marginalizza, silenzia, punisce, cancella dalla storia, fa credere di non esserci mai state nella storia, spettegola, bullizza, ridicolizza, calunnia. Non è colpa nostra, è tanta roba di cui liberarsi, ma dovremmo almeno assumerci la responsabilità di fare i conti con il fatto che corriamo il rischio di ficcarci in queste dinamiche. A volte non c’è rimedio, altre si può cercare di ridurre il danno, altre ancora si dovrebbe ammettere di essere in errore e/o di perseguire altre finalità, di stare dentro un sistema, esattamente come avviene in alcuni ambienti di cui si sta dibattendo in queste settimane…eh, scomoda ‘sta cosa, lo so…ma è un pezzetto di autocoscienza. Quell’autocoscienza che spesso diamo per scontata, cosa fatta, come un compito esaurito una volta per tutte.
Nonostante tutto non smetto di dire “sorella, io ti credo” e, a differenza di ciò che ho visto mettere in pratica, di essere coerente con queste parole. Lo grido ancora più forte, perché mi sono stancata delle mezze misure!
Questa è la ragione per cui amo parlare di sorellanza e delle sue antiche radici: voglio continuare a coltivare quella incondizionata solidarietà che è atto rivoluzionario e che mai permetterebbe che una donna venga abbandonata al suo destino. Mai.

Sorella, io ti credo,
quando il mondo ti nega,
perché la tua voce è la mia,
e insieme siamo invincibili.

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