Cultura, Write here, write now
COMUNIC-AZIONE
28 Aprile 2022
«Comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole
o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro
volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano
anche loro»
(P.Watzlawick- Pragmatica della comunicazione umana)
Le parole di Paul Watzlawick, rappresentano ciò che tendiamo sempre di più ad ignorare, ovvero che tutto ciò che facciamo è comunicazione, non solo ciò che diciamo.
Il linguaggio, tipicamente appartenente alla specie umana, è una forma di comunicazione molto flessibile, di natura astratta e simbolica consente di esprimere in parole dette o scritte, e di comprendere attraverso parole udite o lette, sensazioni, idee e situazioni psichiche relative non solo al momento e alle cose presenti, ma anche a cose collocate nel tempo passato/fututo o anche solo ipotetiche.
L’utilizzo consapevole del linguaggio è centrale per poter definire il mondo in cui ci muoviamo, i significati che assegniamo alle esperienze, il modo in cui riconosciamo il mondo che ci circonda ed in cui ci riconosciamo mentre lo viviamo. Ma il linguaggio non esiste allo stato puro, ovvero non prescinde dalle relazioni, e per comprenderne utilizzo ed evoluzione occorre inserirlo nel sistema più ampio della comunicazione.
La comunicazione è al centro dell’esistenza quotidiana, non può prescindere dalla socialità, per la sua natura relazionale: comunicare vuol dire condividere significati. E’ il mezzo con il quale ci muoviamo nel mondo, sia nella sua forma verbale sia in quella non verbale. Infatti, per meglio precisare il nostro pensiero, combiniamo di continuo le modalità di comunicazione verbale e non verbale. E’ un mezzo fondamentale di cui non possiamo fare a meno, ma che a volte sottostimiamo perché lo diamo per scontato, e lo lasciamo perire pensando di non dovercene prendere cura.
Non possiamo scegliere SE comunicare
possiamo scegliere COME comunicare, proprio perchè ogni nostra azione è comunicazione: ciò che comunichiamo – e quindi agiamo – produce degli effetti. Talvolta, per sfinitezza devo ammetterlo, nel dialogare con le persone soprassiedo di fronte all’utilizzo di espressioni e pensieri stereotipati, carichi di pregiudizi che tradiscono l’assoluta chiusura verso l’esperienza della vita come viaggio di conoscenza attraverso la scoperta di nuove frontiere: a volte basta leggere, o viaggiare con gli occhi della curiosità, senza essere spinte/i dal bisogno di attribuire un valore a ciò che non conosciamo affatto, utilizzando come metro di giudizio le nostre abitudini, il nostro stile di vita, la conoscenza che abbiamo acquisito stando nel nostro recinto di certezze. Questo è il miglior nutrimento che possiamo offrire alla nostra vita, che si muove attraverso la comunic-azione, per mezzo anche delle parole che ci aiutano a definire i nostri sentimenti, il mondo che ci circonda, ad entrare in relazione. Il linguaggio ha un ruolo centrale nello sviluppo dei bambini e delle bambine: attraverso il linguaggio apprendono norme, valori, modelli, esperienze, cultura che che li/le aiuteranno a crescere come esseri sociali. Siamo circondat* dalle parole, spesso ci cadono addosso e raramente ci concediamo il tempo e lo spazio per conoscerne il reale significato, per riflettere sul fatto che abbiamo a disposizione un potentissimo sistema di comunicazione. Ricordo che da bambina aprivo spesso il vocabolario per capire il significato delle parole, è un’abitudine che mai dovremmo perdere nella vita, come non dovremmo mai perdere quella di dare un nome a ciò che ci circonda, comprenderemmo meglio perché la lingua subisce dei cambiamenti e degli adattamenti. Scopriremmo che mai potremo considerare esaurita la nostra conoscenza. Ma, ahimè, ignorando che il linguaggio ha a che fare con il contesto storico e sociale in cui viviamo e che perciò subisce un naturale processo di cambiamento, ci troviamo a rifiutare e boicottare lo strumento più affascinante e potente a nostra disposizione. E vivendo nell’epoca in cui anche l’ignoranza – nella sua accezione di ignorare determinate cose, per non essersene mai occupat* o per non averne avuto notizia – si fa opinione fino ad erigersi a presunzione di conoscenza, la difesa di questo strumento diventa una estenuante battaglia.
Questo è lo spazio in cui trova accoglienza il confronto attraverso lo scambio di conoscenza, di riflessioni sul legame tra la dimensione sociale e quella del linguaggio: perchè le parole possano trovare una degna inclusione, e i diversi linguaggi possano entrare nelle nostre vite ricoprendo un posto di pregio e di riconoscimento. Anche comunicare in maniera ironica ha il suo fascino nel processo di costruzione dei significati, e per me rappresenta l’ospite d’onore: ciò che non considero ironico è invece la ridicolizzazione che del linguaggio fanno ahimè molti nuovi crociati contro i diritti altrui i quali, per reprimere ogni progressione in avanti della civiltà, approfittano proprio di quell’analfabetismo – talvolta funzionale e di ritorno, talvolta nel suo significato di ignoranza e disinformazione – di chi non osa fermarsi un momento per chiedersi cosa sta cambiando nel mondo in cui vive.
Vorrei provare a stimolare la stessa curiosità che muove la mia continua ricerca di risposte, attraverso la condivisione delle esperienze che mi portano a trovarle. Un semplice termine, nuovo, mai letto o sentito prima, può aprirci la porta su un mondo fatto di esperienze e riflessioni, movimenti di persone o semplicemente azzeccati giochi di parole che aiutano a semplificare un’idea o memorizzare un qualcosa, o che rendono riconoscibile qualcosa a livello globale.
IL MEZZO E’ IL MESSAGGIO
I mezzi di comunicazione di massa, straordinariamente capaci di fornire informazioni e mettere in relazione una vastità impressionante di pubblico in brevissimo tempo, hanno la grande responsabilità di veicolare contenuti che vanno a formare opinioni, stati d’animo, fino a generare movimenti ed azioni sia positive sia negative. La famosa affermazione di Marshall McLuhan “the medium is the message” – il mezzo è il messaggio – frutto di una delle sue più importanti riflessioni, ci dice che al di là del contenuto, il mezzo attraverso cui esso viene veicolato costituisce di per sé il messaggio. Il mezzo che utilizziamo ha una forte influenza nel condizionare e forgiare la nostra mente, nel costruire l’immaginario collettivo, ed è attraverso l’uso che ne facciamo che come singoli che individui agiamo e ci relazioniamo con chi ci sta intorno modificando i nostri rapporti con il mondo circostante. E’ importante osservare e considerare il contesto culturale nel quale il mezzo si inserisce: il ragionamento vale per ogni epoca, per ogni contesto, per ogni medium utilizzato.
Esplorare oggi le dinamiche comunicative dei social networks con la curiosità ed anche la capacità di osservazione delle dinamiche sociali, ci permette di rilevare anche l’immediatezza e la semplicità con cui si vengono a creare quei meccanismi di cui McLuhan parlava in un’epoca in cui i riferimenti mediatici erano ben altri (tv, radio, cinema, giornali, telefono, ecc). Scegliere di utilizzare i social media rappresenta già una scelta rispetto al messaggio: l’intenzione è quella della interattività, della partecipazione, del networking e della reazione immediata, in entrata ed in uscita. La velocità con cui è possibile far circolare le informazioni è impressionante: ciò porta con sé il vantaggio dell’immediatezza, della connessione tra persone ad un livello globale ed inclusivo; ma dietro l’angolo – mi permetto di dire, non proprio dietro l’angolo, ma ben visibile – si nasconde il rischio di far circolare informazioni false o riservate, violenza, linguaggio di odio, alla stessa velocità e con effetti devastanti sulle dinamiche sociali che, è ormai sotto gli occhi di tutt*, talvolta contribuiscono a far emergere veri e propri movimenti sostenuti da fomentatori di fake news. Com’è possibile tutto ciò? Mi chiedevo “come può la gente credere che ad esempio in un vaccino possa essere contenuto un microchip per controllare le nostre vite, o che i migranti che sbarcano lungo le nostre coste vivano in alberghi a cinque stelle con x euro al giorno e che buttino nella spazzatura il cibo che viene dato loro? Come può una parte della popolazione mondiale ancora credere che l’omosessualità sia una malattia che si può e si deve curare? Siamo nell’epoca in cui non serve andare in biblioteca a cercare delle fonti o essere per forza attivist* per i diritti umani per verificare certe stronzate, basta una ricerca in internet di fonti affidabili, un messaggio a qualcuno che abbia un’esperienza specifica, si capisce quando una notizia o una informazione sono esageratamente e ridicolmente false, no?”
Notizie false e teorie del complotto hanno un successo ed un seguito straordinari, di certo facilitato dalla velocità con cui i social media riescono a trasmettere informazioni e reazioni, ma sono sempre esistite. Contrastarne la diffusione è molto difficile, trattandosi di una forma di comunicazione many – to many, ciò che possiamo fare è cercare di ridurre il danno assumendoci la responsabilità di approfondire le informazioni che ci arrivano prima di contribuire a diffonderle. Ridurre il danno spesso significa ridurre le possibilità che le conseguenze negative ricadano sulle singole persone o sui gruppi di persone.
Occorre stringersi forte ed amplificare l’amore per l’informazione e la cultura, nutrire la curiosità che non ci fa consumare e condividere notizie tra l’uscita sotto casa con il cane e l’attesa al semaforo rosso. Se non riusciamo a trovare tempo – per me vale sempre il principio della scelta purché consapevole– dovremmo evitare di far circolare notizie non verificate, o diffondere teorie che sembrano autorevoli solo perché qua e là vengono citati altisonanti personaggi e complicatissimi termini, o perché “ammiocuggino” ci ha detto che “da bambino una volta è morto”. Abbiamo, in ogni momento della nostra vita, la possibilità di approfondire, di conoscere e riconoscere anche a noi stess* che non possiamo arrivare a comprendere tutto. Non basta un click per comprendere le ragioni della sperimentazione di un vaccino, o le dinamiche di una pandemia; non basta avere due definizioni per capire le radici che sono alla base della violenza contro donne e ragazze o per poter criticare l’uso del linguaggio di genere; occorre fare uno sforzo prima di tutto per accettare che non è possibile avere competenze in ogni campo, in ogni disciplina; poi occorre riconoscere i propri limiti quando ci troviamo di fronte a temi per noi complessi o per i quali non nutriamo interesse – non è mica disdicevole, ma lo è metterci bocca nonostante il nostro disinteresse – senza cercare scorciatoie fornite da chi approfitta della nostra paura, della nostra fretta di avere risposte senza perdere troppo tempo, del nostro bisogno di semplificare. Le fake news vengono utilizzate per manipolare e fare propaganda, facendo leva su pregiudizi e stereotipi, talvolta a scopo politico per guadagnare consenso senza alcuno scrupolo, talvolta a fini sensazionalistici per generare visibilità soprattutto online attirando il maggior numero di pubblico possibile per generare rendite pubblicitarie (clickbait) e quindi fornendo consapevolmente disinformazione indossando gli abiti del giornalismo.
In Italia, un esempio lampante di tutto ciò è il “purtroppo” Senatore della Repubblica, l’On. Simone Pillon che appellandosi ai valori della cristianità e del rispetto della famiglia tradizionale, utilizza un linguaggio semplice e diretto allo scopo di attirare un pubblico che, stando ai commenti, non perde neanche mezzo secondo del proprio tempo a verificare ed informarsi. A volte scorrendo i commenti ai suoi post sembra di trovarsi nel bel mezzo di una funzione religiosa, tra gli innumerevoli “Dio ti benedica” e “Gesù ti protegga”, con tanto di GIF splendenti di luce divina e addobbate da colombe bianche. I commenti in questione si riferiscono a post in cui il Senatore puntualmente manifesta pensieri omofobi, divulga fake news sull’aborto e sull’educazione alla parità nelle scuole, per fare poi la vittima innocente di chi non tollerà la sua libertà di espressione. Tutto ciò è in pefetta sintonia con la strategia comunicativa utilizzata dalle destre radicali ed ultraconservatrici in tutto il mondo, supportate dalle gerarchie Vaticane. Dai commenti dei suoi sostenitori, si può facilmente estrapolare il livello di analfabetismo funzionale, bigottismo, fottutissima ignoranza, dei sostenitori delle destre radicali ed ultraconservatrici. Per avere una idea di quanto al Senatore stia particolarmente a cuore smuovere consensi attraverso la disinformazione, segnalo il sito Butac, che da anni si occupa di scovare bufale in rete ed offre un ottimo servizio a chi vuole evitare di cadere nella rete dei complottismi e delle fake-news, che spesso si sovrappongono. Nonostante il Senatore Pillon sia stato anche citato per avere fatto una gaffe a proposito dell’uso del termine “architettrice” in riferimento ad una mostra su Plautilla Bricci, io non credo alla sua ignoranza, piuttosto sono certa della sua consapevolezza che ciò avrebbe attirato l’attenzione della sua corte di analfabeti funzionali, che non andranno mai a digitare su google “Plautilla Bricci architettrice” approfittando di aggiungere un pizzico di conoscenza in più alle proprie vite. E ciò non ha a che fare soltanto con il livello di istruzione o con l’estrazione sociale perché, come scrive Il Sole 24 Ore in una ricerca pubblicata nel 2018, analfabeti funzionali o low skilled non solo si nasce, ma si diventa. Se qualcuno vi dice che il Senatore Pillon è un troll a cui non bisogna prestare attenzione, vi consiglio di rispondere che “magari lo fosse” ed invece il problema è che forse per troppo tempo non abbiamo prestato attenzione a quella macchina distruttrice dei diritti umani di cui lui è uno dei tanti ingranaggi.
RIPETETE CON ME “IL LINGUAGGIO D’ODIO NON E LIBERTA’ DI OPINIONE”
(Aggiungiamo anche “fascista è, chi il/la fascista fa”, che non guasta mai)
E se non siete in grado di riconoscerlo, è un problema. Ma possiamo risolverlo. Il linguaggio d’odio nello spazio pubblico è sempre esistito, ed ha sempre colpito minoranze e soggetti vulnerabili. E’ sempre stato alimentato da chi nello spazio pubblico ha visibilità, attraverso la manipolazione della realtà e delle informazioni, facendo leva sui più bassi istinti dell’essere umano. Nei periodi di crisi il linguaggio d’odio trova la sua massima manifestazione: sono i momenti in cui occorre individuare un nemico. Come diceva Umberto Eco, avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto quando il nemico non c’è, bisogna costruirlo e riversare su di lui tutte le frustrazioni, alimentate da chi vuole creare quello scompiglio utile a legittimare l’eroe salvatore che ristabilirà l’ordine. Oggi, lo spazio dei social networks risulta il più confortevole per chi utilizza linguaggio d’odio – e quindi anche per chi lo stimola, infatti ogni politico pare diventato influencer – non entrando in alcun modo nella relazione reale con i soggetti cui sono rivolte le loro parole. E’ come se vi fosse la percezione di agire nell’anonimato, e quindi di non agire in maniera diretta. Non viene contemplato l’effetto delle proprie parole, della comunic-azione, perchè le parole vengono considerate a sè stanti, non agenti. Ci ritroviamo a scorrere commenti simili a discorsi che magari abbiamo sentito fare al bar, o dal vicino di casa, magari da un parente: fanno schifo comunque, ma almeno li stanno a sentire due o tre persone e, se tutte fanno come me, li ignorano considerandoli semplicemente inutili all’evoluzione. Il problema si amplifica quando questi soggetti hanno libero accesso alla rete e postano commenti di odio senza minimamente contemplarne gli effetti, senza contemplare che ciò che avviene in rete si tramuta in comportamento diffuso nella realtà.
A volte mi guardo intorno, osservo il mondo delle persone mie coetanee o più avanti con gli anni, e mi rendo conto che l’analfabetismo funzionale di ritorno si è diffuso come un cancro: moltissime persone hanno perso l’abitudine di tenere la mente in esercizio attraverso la lettura, l’osservazione, di entrare in relazione con il proprio spirito critico, ed hanno imbarcato una quantità di pregiudizi, visioni stereotipate, informazioni palesemente irricevibili, da far rabbrividire. Di certo a me tutto ciò provoca la necessità di arricchire ancor di più il mio bagaglio culturale: come dire, non voglio rischiare di contagiarmi. Il tema è sempre lo stesso: c’è bisogno di soffermarsi per approfondire. Fortunatamente la mia ristrettissima cerchia di riferimento gode ancora di ottima salute: si pone delle domande e non ha fretta di avere risposte dallo youtuber di turno o da improbabili pagine che troviamo veramente espressione di un disagio troppo diffuso che si muove alla velocità della luce.
Tempo fa, una persona di mia conoscenza ha pubblicato su facebook questa vignetta: accompagnata da una didascalia “è la storia che lo insegna”.
Mio nipote quindicenne, sentendoci commentare sia la vignetta sia la scarsa intelligenza di chi l’ha condivisa – non che fosse una sorpresa, la scarsa intelligenza intendo – ha detto “ma scusate, e che storia ha studiato Tizia che condivide questa cretinata?”.
Ecco, questo riassume tutta la fiducia che ripongo nei giovani e nelle giovani, che trovano assurdo che una persona possa essere tanto presa dai suoi pregiudizi da ignorare anche le più elementari e scontate nozioni di storia. “Dove hai studiato questa roba? Quale storia ci ha tramandato una cazzata simile?”. Chi ha scritto questa vignetta e la didascalia che la accompagna, forse non conosce la storia, o forse si, ma agisce con la precisa intenzione di alimentare l’odio verso i migranti, senza nulla approfondire, perchè sa che il suo pubblico di riferimento non ha bisogno di approfondire, ma solo di legittimare il proprio razzismo. E’ una azione, che provoca delle reazioni, non solo sul piano virtuale. Diventano quotidiane e diffuse manifestazioni di violenza fisica e verbale, dirette ai migranti definiti indistintamente “clandestini” senza conoscere il significato della parola “clandestino” o “migrante”. Prendono immediatamente il significato di “delinquente” e “nullafacente”. Che poi, a stare dentro il cervello di un fascista che deve dimenarsi tra tutte le categorie di persone che deve fare fuori per ripulire il mondo, è un trip: perchè il fascista dichiarato o inconsapevole – questi ultimi stanno in ogni famiglia, non neghiamolo – è ok quando si tratta di african* – sono ner*, ce la fanno – ma poi quando arriva alla popolazione romena, si incarta tutto. I/le romen* diventano tut* zingari e rom ovvero, nella mente del fascista più o meno consapevole, ladri, spacciatori, ladri di bambini, nullafacenti, zozzi, praticanti di magia nera e così via, ma ovviamente senza di loro pora nonna bisogna guardarsela, fermo restando che nessun* di loro ha gran voglia di lavorare e rubano in casa.
Ora, i miei nipoti sono nel pieno degli anni di studio – pratica che auguro loro di non abbandonare mai, come purtroppo ha fatto troppo presto Tizia, che pubblica a cervello spento vignette prive di senso – e quindi sanno che
- Con l’aggettivo “romeno” si indica un cittadino della Romania. Il popolo romeno non è rom.
- Un rom, tuttavia, può avere nazionalità romena ed essere dunque un rom romeno
- Il termine “zingari” indica in modo generico diversi gruppi etnici (rom e sinti sono i principali) che in passato avevano uno stile di vita nomade.
Che ci vuole? I miei nipoti non contemplano il ragionamento stereotipato, perchè sanno basta chiedere, informarsi, leggere, per sapere. Spesso mi accorgo che tacciono per educazione, ma non mancano di chiedere come si possa ragionare senza riflettere, come si possa ad esempio affermare che il fatto che essere originari di un determinato paese faccia di un individuo una persona disonesta, o che il colore della pelle possa attirare l’attenzione e le cattiverie di qualcuno. Sono fortunati, tanto quanto lo sono stata io, perché sanno che fare semplici domande è più importante del dare risposte pessime rischiando di fare brutte figure. Auguro loro di poter conservare questo tesoro per l’età adulta.
La guerra in Ukraina ha dato nuovi pretesti alle persone affette da analfabetismo funzionale per aprire bocca e dare fiato a delle figure di sterco che vanno ad aggiungersi all’enciclopedia della mediocrità “queste sono le persone che dobbiamo accogliere, perché fuggono veramente dalla guerra! Mica come quelli che vengono qua con i barconi a fare la bella vita!”. I profughi che fuggono da guerre “non nostre”, dalle persecuzioni, dalle violenze, non hanno la nostra attenzione. E nel 2022 facciamo i conti con posizioni che si basano sul colore della pelle ed i tratti somatici, tanto per l’opinione pubblica quanto per i Governi, che prendono in considerazione la Convenzione di Ginevra quando fa comodo. La Polonia ne è un esempio: adulti e bambini che fuggono dallo Yemen, dall’Afghanistan, dalla Siria vengono lasciati morire nelle foreste al confine con la Bielorussia, sono forse vite umane di minor valore? Magari la risposta può darla chi ha condiviso la vignetta qui sopra, certamente mi sfugge qualcosa.
Lo ammetto, quando rimango in silenzio e non rispondo, quando cerco una scusa per andarmene, lo faccio perché trovo che a volte occorra rinunciare. Al di sotto di un certo grado di ignoranza occorre considerare le persone non in grado di recuperare le facoltà di ragionamento. E poi non ho mai detto di essere votata al sacrificio fino a tal punto. La mia aspirazione è l’evoluzione, non posso rischiare di regredire. Chi ha introiettato tanta ignoranza, ha costruito un mondo in cui tutto ciò di cui si convince trova spazio, giustificazione, comodità. Ma fuori da lì c’è un mondo che va avanti, nonostante le loro misere vite. Trovo sorprendente che molte di queste persone si definiscano anche cristiane: razziste e cristiane, intolleranti e cristiane, omofobe e cristiane…mah, fortunatamente rispondere ai valori cristiani non è un mio problema, ma se per caso dovesse esistere chi le aspetta dopo la morte, non vorrei perdermi lo spettacolo!
Tiziano Terzani, in La fine è il mio inizio ci parla della pratica del silenzio, a cui non siamo più abituat*, forse perchè lo associamo alla morte di cui abbiamo timore, mentre è ciò che ci consente di rimetterci in connesione con noi stess* e con il mondo intero. Il silenzio è comunicazione, è la natura del sè. Vi invito a leggere questo straordinario ultimo libro che Tiziano ha scritto con l’aiuto di suo figlio Folco. Il modo in cui ha cambiato la mia vita è straordinario, spero abbiate voglia di scoprirlo anche voi.