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FAST AND FURIOUS vs SLOW AND COURIOUS
1 Aprile 2022
C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge.
Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni fondamentali: Il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità della dimenticanza.
(Milan Kundera)
Raramente nella vita mi è capitato di uscire da una libreria a mani vuote, seppure ogni volta entrando ricordo a me stessa che:
- Ho la casa piena di libri
- Ho comprato un book reader per evitare di accumularne altri
- Non riuscirò mai a leggere tutti i libri che possiedo
Ma è più forte di me! Tuttavia, trovo questa una delle debolezze più sane al mondo: infatti sono pressoché convinta che chi non trova il tempo per entrare in una libreria o considera un libro una mera fonte di polvere, sia più o meno lucidamente complice dell’involuzione della società, soprattutto nei casi in cui scelga di avere figli, perchè non saprà trasmettere curiosità, amore per la lentezza e per il sapere. Leggere vuol dire rallentare, prendere una pausa, uscire dal mondo in cui siamo per esplorarne altri, arricchire il proprio vocabolario e meravigliarsi. E da quella meraviglia non può che nascere una diversa consapevolezza, di noi, della vita che viviamo e di come la viviamo. Una meraviglia che stimola altra meraviglia, facendoci scendere dalla inarrestabile giostra che gira così freneticamente da averci fatto perdere la capacità dare valore ad altre vite che non siano le nostre, ad ogni azione che non sia produttiva, ad ogni sentimento che non risponda a delle regole.
“Cosa c’è di più importante nella vita, se non il lavoro?” sento chiedere e chiedersi continuamente. “A mio avviso, la capacità di apprezzarla la vita e rendere migliore il mondo in cui viviamo attraverso i nostri comportamenti, l’amore per il sapere, la felicità. Il lavoro è il mezzo, non il fine, anche quando è il lavoro che amiamo”: questa la risposta che darei se non sapessi che la domanda non è una domanda vera e propra, chi la fa non vuole avere una mia opinione, ma solo affermare la propria scelta di vivere solo in funzione del lavoro, che giudica unico metro di misurazione del valore delle persone. Perciò le risposte che non do ad alta voce, diventano spunto di riflessione ed osservazione per me, uno stimolo per cercare di comprendere l’animo umano ed il modo in cui ognun* di noi si relaziona con il proprio mondo interiore e lo porta fuori, in relazione con gli/le altr*.
“Tutto può accadere in un normale istante”(Joan Didion)
Se mettiamo il lavoro al centro di tutto come unica ragione di vita ed a manifestazione del proprio valore al mondo intero, se giudichiamo chi ci sta intorno in base al lavoro che fa, alle ore che dedica al proprio lavoro, arrivando a decretare cosa sia lavoro e cosa no in base a questi parametri, senza considerare null’altro, allora possiamo prevedere dove finisce la nostra vita: il lavoro si può perdere, un’attività può fallire, un investimento si può rivelare fonte di perdita di ogni nostra risorsa materiale e…blackout: ci siamo dimenticat* di prevedere un salvavita coltivando emozioni positive, di nutrire il benessere psicofisico oltre quello economico, di praticare self care.
E’ lì che, se abbiamo sempre considerato il lavoro il fine ed unico valore di vita, finiamo schiacciat* sotto il peso del nostro grattacielo di effimere certezze, e continueremo a correre con il fiato corto verso…non lo so verso dove, magari resteremo bloccat* a chiedercelo fino alla fine dei nostri giorni.
Vale la pena provare, prima che sia troppo tardi: provare a rallentare, a vedere il mondo ad un’altra velocità e chiedersi come sarebbero il lavoro, la vita, la salute, se nessuno avesse investito nel sapere, nella divulgazione, nella cultura, nell’ottica dell’alterità, se ognuno avesse corso la sua gara individuale, senza preoccuparsi dell’intera umanità dopo di sé, se ognun* avesse pensato che il proprio lavoro fosse l’unico indiscutibile al mondo, e la propria competenza impareggiabile. Non si tratta di assumere per forza un altro punto di vista, si tratta di fermarci, e cercare di mettere in discussione le nostre certezze, con umiltà e senza temere quel giudizio che spesso riserviamo a chi ci sta intorno.
A volte, sento il desiderio di chiedere a chi mi sfreccia accanto con il suo carico di cose da fare come nessun altro lo farebbe “ma dove state correndo? Non vedete che state divorando la vita?” Alla fine della corsa non ce ne sarà un’altra.
Vivere per lavorare
No, non ignoro che sempre più spesso dobbiamo lavorare più di quanto riusciamo a sopportare, che le responsabilità di alcuni lavori non si possono contrattare, e di certo rifiuto con tutta me stessa il concetto di motivazione che dovrebbe far accettare ogni condizione lavorativa, perché su questo concetto ho visto costruire le peggiori forme di sfruttamento e manipolazione, che arrivano fino a pericolose dinamiche di potere. A rimetterci è la nostra salute, il nostro benessere, la nostra stessa vita. Per indurci a rinunciare a quel benessere che è il nostro motore di vita, le strategie sono piuttosto meschine, povere di contenuti, ma ahimè fanno presa nelle nostre vite piene di incertezze, in un mondo in perenne corsa, che non ci permette di prenderci una pausa. Quindi, spesso dopo anni di studio, di lavoro, di formazioni, nell’attesa di poter mettere a frutto i nostri investimenti monetari e di tempo, ci troviamo di fronte alla miseria umana sotto forma di:
- “Se te ne vai te, di fuori c’è la fila”: infatti uscendo da lavoro spesso ci si trova a schivare la folla di zombie che si ammassa contro la porta per poter entrare a prendere il posto di chi con lo stipendio non ci arriva neanche alla metà del mese.
- “per ora ti faccio lavorare settordici ore al giorno per 600 euro senza ferie nè malattia, poi se vai bene fooorse ti tengo”: questo è il nuovo “mese di prova”, che normalmente sarebbe retribuito come dal contratto in cui è previsto, e se la prova non va bene, finisce lì. Ma il “fooooorse ti tengo mentre ti tratto come una/o schiava/o e anzi baciami il culo perchè ti faccio lavorare” pare faccia particolarmente tendenza tra gli eroici datori di lavoro, i qualisi riducono a vivere sul lastrico per dare quattro spicci alla comunità che pietosamente fanno lavorare. Grazie, che Dio vi abbia in Gloria, presto.
- “si vede che lavori per i soldi, non pensi mica che è difficile garantire a tutt* uno stipendio? Meglio se chiudiamo?”: pare che lavorare per soldi sia diventato ben più grave del fare una rapina a mano armata in una Banca. Nel galateo della nuova era occupazionale, al lavoro si va perchè è un privilegio poter lavorare, pretendere la retribuzione è da sfigat* ed egoist*. Soprattutto se si lavora in quel terzo settore al servizio della comunità, dove non esiste alcun confine tra lavoro e volontariato, e guai a mettere in discussione il sistema! Avete mai provato a chiedere di poter pagare tasse, mutui, bollette, medicinali, abiti, scarpe e viaggi in motivazione? E’ incredibile, non si accettano pagamenti in questa forma…dove arriveremo a forza di restare attaccati al concetto di lavoro in cambio di remunerazione!
- “Guarda là: a fine turno come si sbrigano ad uscire…non lavorano mica dieci minuti in più eh…”: non mi è chiaro perchè alla fine di un turno lavorativo, non si debba uscire da lavoro. Questa è una caratteristica molto italiana, da mentalità prettamente padronale: i migliori sono coloro che non guardano l’orologio, che lavorano fino a tardi, che escono da lavoro giusto per andare a dormire, come se dovessero tenere in piedi tutto il mondo e pure l’azienda, su una sola gamba. E se poi si trovano nel periodo del “foooooorse ti tengo”, sono spacciat*, perchè un solo accenno di uscita in perfetto orario potrebbe mettere a rischio il loro futuro, non importa quante giuste competenze abbiano.
- “Cerco personale da millemila mesi, non riesco a trovare qualcun* che voglia lavorare nel mio bar/ristorante/albergo/qualsiasi attività, soprattutto tra i giovani”: hai provato a non pagarl* 4 euro l’ora?
- “Le nostre aziende sono in crisi perchè le alte professionalità vanno tutte a lavorare all’estero”: come sopra. Difficilmente qualcuno lascerebbe il proprio Paese a parità di condizioni: ergo…
So bene cosa voglia dire lavorare senza potersi permettere di controllare l’orologio per staccare ad un orario preciso, quanto sia frustrante dover sollecitare lo stipendio a fine mese come fosse sgradevole stare lì a lavorare per i soldi e non per la gloria, e so anche come ci si sente quando un bel giorno ci si trova fare i conti con un lavoro che non c’è più. Non ignoro il sistema in cui viviamo, in quello che qualcuno chiama Assurdistan. E’ per questa ragione che occorre lavorare sullo spazio che diamo a tutto ciò nella nostra mente, nella nostra quotidianità, anche quando non siamo a lavoro.
Rallentare…
…perché rallentando possiamo fare spazio alla conoscenza, costruire il nostro pensiero critico, mettere in discussione un sistema che ci sta rubando tempo, un tempo per stare al mondo, un tempo per costruire relazioni solidali e non competitive h24 – 7 giorni su 7.
Quella del godimento quotidiano della vita è una dimensione che richiede uno sforzo iniziale di messa in discussione, ma poi diventa l’esercizio più salutare dello stare al mondo senza correre da nessuna parte, attraversando la vita come in una libreria grande e silenziosa: osservando, scoprendo, empatizzando, soffermandoci sulle nostre emozioni, accogliendo i nostri disagi e curando la nostra anima. Questo è ciò che poi ci aiuta a guidare il nostro mezzo, ovvero il lavoro: è ciò che ci rimetterà al centro di tutto anche il nostro diritto al riconoscimento sotto ogni punto di vista. Questa nuova lente ci aiuta a vedere dei dettagli che prima ignoravamo, ognuno/a nel proprio contesto di riferimento. Allora mangiare non sarà più “buttare giù qualcosa”, dormire diventerà rigenerante, camminare sarà scoprire, cucinare e fare attività fisica saranno la medicina assunta con regolarità, la pausa caffè l’occasione per guardare negli occhi la persona con cui stiamo parlando, leggere un libro un momento per andare altrove, nel mondo di chi l’ha scritto, ascoltando il suono del silenzio.
La vita mi ha messa a dura prova perché io giungessi a questa conclusione, quindi non posso certamente asserire che si tratti di una bazzecola: credo però più di ogni altra cosa nella condivisione e nella trasmissione delle esperienze come fonte di crescita ed evoluzione, in una dimensione dialogica in cui tutt* ci sosteniamo ed abbiamo cura l’un* dell’altr*. Che non è altro che l’ottica femminista con cui vivo il processo di crescita, nonostante tutto e nonostante tutt*.
Non è dall’alto del mio piedistallo che provo a smuovere l’amore per la vita, ma a partire dal profondo della personale esperienza che mi ha portata fino a questo spazio di sana e costruttiva lentezza, che continuerò a costruire insieme e grazie voi.
Ogni tanto provo a condividere il mio percorso, perché è proprio dalla condivisione delle nostre esperienze che possiamo sostenere qualcuno, non erigendoci ad espert* delle vite altrui, dei loro dolori, dei loro traumi.
Parliamo CON le persone piuttosto che DELLE persone
Perché se si tratta di persone per le quali proviamo stima ed affetto, sarà per loro importante saperlo, ed un buon motivo per credere in sé stesse anche nei momenti più difficili; se si tratta di persone con le quali invece siamo in conflitto, sarà per noi un buon esercizio di vita, perché parlando delle persone si può mutare un conflitto in qualcosa di ben più dannoso – un esempio di ciò è il mobbing, sia nel luogo di lavoro che nella vita di ogni giorno, ma di questo parliamo qui – mentre parlando con le persone si sceglie di tentare di risolvere quel conflitto, e lasciare spazio al confronto.
Poi esiste una terza via: se non abbiamo voglia di parlare con le persone, abbiamo facoltà di non farlo, certamente ne ricaveranno un danno minore del nostro parlare di loro con l’ambizione di risolvere le vite altrui praticando le nostre soluzioni. Provare per credere.
Riscopriamo la semplice curiosità
Proprio come quando eravamo bambin*: il mondo intorno a noi stimolava la voglia di saperne di più, avevamo la capacità di osservare ciò che passava inosservato agli occhi degli adulti, sapevamo vivere il momento ed immaginare ciò che non avevamo a portata di mano, inventare mondi in cui vivere avventure e superare le paure. Non ci interessava giudicare il modo in cui le altre persone vivevano la loro vita, come impiegavano il loro tempo, se avessero o no un lavoro. Non ci interessava giudicare, ci interessava sapere, per conoscere tutti i colori del mondo in cui vivevamo, sfumature comprese. Le domande che rivolgevamo avevano il puro e semplice scopo di soddisfare la nostra curiosità, e non di appiccicare un’etichetta a qualcuno. Poi crescendo accade di osservare ed ascoltare un mondo intorno che da risposte prima di fare domande, che assegna valore alle persone in base ad informazioni generiche.
Entrando in una libreria, vi consiglio di acquistare una copia de “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, per ricordare che “tutti i grandi sono stati piccoli, ma pochi di essi se ne ricordano”, e che non è disdicevole tornare indietro per incontrare la nostra infanzia e la nostra curiosità, la cura che avevamo per ciò che oggi consideriamo futile.
“Evidentemente è un* che ha tempo da perdere!”
E’ ciò che si sente spesso dire quando ad esempio ci si trova a parlare di qualcuno che ha un hobby, che cura la propria casa in modo particolare, che passa del tempo a leggere o a fare qualsiasi altra cosa fuori dalla portata di chi afferma una cosa che in quanto a superficialità è seconda solo al giudicare una persona da come veste. Io invece credo che le persone che scelgono di fermarsi per poi ripartire a velocità ridotta non lo fanno perché hanno tempo da perdere, ma perché non vogliono perdere tempo. Per la mia seconda parte di vita, io scelgo di non perdere tempo e mi capita di vedere ed ascoltare quanta poca vita ci sia in chi invece crede che io abbia tempo da perdere, semplicemente perché non ho bisogno di mostrare a nessuno quanto sono brava nella corsa. Stare ad una scrivania a scrivere, non è mica considerata un’occupazione dignitosa: se solo sapessero che a volte mi metto a colorare, potrei essere nominata fancazzista dell’anno!
Non è mai perso il tempo in cui rientriamo in noi, ci ascoltiamo, ci accogliamo, cerchiamo di scoprire come stiamo cambiando, diamo una ripulita al sentiero che stiamo percorrendo e lo rendiamo comodo e stimolante, con delle belle aree di sosta per poterci rigenerare.
Scegliere di non perdere tempo è anche ciò che ci permette di prenderci cura delle persone a noi care, di coltivare sensibilità. Durante la celebrazione del funerale laico di una persona morta suicida per avere attraversato l’inferno della disoccupazione e della depressione, un caro amico pronunciò poche parole che ho da quel giorno ripeto ogni volta che mi trovo di fronte a chi corre troppo veloce e non ha tempo da perdere “le persone sensibili devono stare vicine”. Già, perchè solo stando vicine possiamo capire che grande dono sia la vita che stiamo vivendo, e solo stando vicine possiamo sostenerci a vicenda.
“Soffia nelle bolle con le guance piene
E disegna smorfie sulle facce serie
Devi fare ciò che ti fa stare
Devi fare ciò che ti fa stare bene”
(Caparezza – Ti fa stare bene)
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