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L’ATTIVISMO CI SALVERA’ DALL’ODIO (E DALL’ESTINZIONE)

Tempo di lettura: 16 minuti

“Activism is my rent for living on the planet”
Alice Walker – American writer and social activist

 

La parola del giorno, di ogni giorno, di quelle che dovrebbero mettere nei vari calendari filosofici che girano on line, sulle bacheche delle scuole, dal giornalaio in evidenza, sui mezzi pubblici dovrebbe essere ATTIVISMO. Una semplice parola, che entrando a far parte delle nostre vite con tutto il suo carico di significato, da sola basterebbe a cambiare il mondo. Sin dal primo respiro di un neonato. Perché è una parola che si indossa, una seconda pelle: una parola che nutre, veste, parla, ascolta, ama, accoglie, guarda oltre, passa di generazione in generazione.
A volte, nel pronunciarla, si possono riscontrare delle reazioni di perplessità o di curiosità, perché per alcune persone è una parola priva di significato, che è rimasta fuori dagli usci delle loro case.
Ci sono occasioni in cui vale la pena spiegare, perché è possibile che i nostri interlocutori e le nostre interlocutrici vogliano tentare di indossarla anche solo per curiosità. Vale la pena dare una definizione per chiarire anche chi siamo, e come abbiamo scelto di stare al mondo.
“Zia dai, raccontami di qualche tua arrabbiatura, di qualche litigata!”…ecco, questa è una delle occasioni in cui vale la pena spiegare che sono un’attivista, anche per gettare un seme. Meglio suggerire di sostituire “litigare” con “mettere in discussione”, perché la differenza sta nella sostanza. Litigare può essere la conseguenza della messa in discussione di qualcosa che fino a quel momento era stata tacitamente accettata per tante ragioni. Mia nipote è curiosa di sapere perché litigo, e finché sarà curiosa, io sarò pronta a dare spiegazioni. Perché non cresca con l’idea che “ci sono ben altri problemi più importanti di cui occuparsi, prima delle tue litigate sui diritti umani”, perché, al di là delle sue scelte e dei suoi percorsi, abbia chiaro cosa vuol dire scegliere di essere un’attivista, ovvero intraprendere un viaggio nel mondo insieme a tante altre persone, perseguendo l’obiettivo del cambiamento, della giustizia sociale, della consapevolezza. Il più bello dei viaggi, ricco di sorprese e non poche difficoltà, in cui si può solo migliorare.
E’ un viaggio che non necessariamente implica lo spostamento fisico, ma indubbiamente una certa elasticità mentale e la capacità di scegliere quotidianamente da che parte stare, anche nelle azioni apparentemente più banali. E’ un viaggio perpetuo, che non ha il carattere dell’occasionalità e della circostanza, perché altrimenti si chiamerebbe opportunismo e non attivismo. E’ un viaggio che alcune volte richiede pause di ristoro e ricarica, ma che fornisce esso stesso queste due risorse attraverso la motivazione.
Durante questo viaggio avvengono processi di contaminazione del mondo circostante, assistiamo alla nascita di nuove relazioni, lasciamo dei semi che germogliando daranno luogo ad altri viaggi. L’attivismo è come una seconda pelle che, una volta indossata, rimane per sempre: attraverso di essa, la vita vissuta prende tutto un altro sapore. Non si smette più di guardare guardare al passato con lo sguardo verso il futuro, e la consapevolezza della responsabilità delle azioni presenti.
Non esiste attivismo senza politica, perché l’attivismo è presenza nella polis, nello spazio pubblico, con l’obiettivo di influenzarne le dinamiche. Esiste però la politica che strumentalizza l’attivismo, e una delle più grandi sfide è quella di saperla riconoscere, smascherare, allontanare. La mediazione sulla pelle dei diritti umani non fa parte del viaggio dell’attivista. Mai. Sostenere con forza questo principio miete continuamente delle vittime lungo il viaggio, e lascia profonde cicatrici, che però vale la pena portare.
Una giovane donna, di fronte alla coerenza di chi prendeva una decisione a costo del proprio posto di lavoro, disse “sai, a me hanno insegnato a non sputare nel piatto in cui mangio”: il piatto in cui mangiava era pieno di schifezze, compromessi, propaganda sterile e priva di coerenza. Lei è andata avanti su questa strada, senza mai poter sostenere con decisione le proprie idee, asservita ad un sistema che le garantisce tutto fuorché onesta ed integrità. Chi l’ha lasciata lì, sa che ogni sua scelta, ogni discorso apparentemente sostenibile, cela quel principio del “non sputare nel piatto in cui mangia”. Potrà indossare tutte le tute da attivista del mondo, non saranno mai la sua seconda pelle. Ed è in buona compagnia.
Non riesco umanamente a concepire chi riesce a vivere senza pensare di impegnare almeno parte del proprio tempo in qualcosa che vada al di là delle quttro mura del proprio ego. Si lo so, così sembro veramente ingenua, ma è la verità: io non capisco, quale sarebbe il senso della vita se non quello di riempirla di qualcosa che possiamo tramandare a chi viene dopo di noi? Mi perdonerete se affermo che non ha senso neanche mettere al mondo dei figli, se non come ennesimo atto di egoismo e di conformità, dal momento che non ci impegniamo a lasciare loro un mondo in cui possano sentirsi liber* ed al sicuro, in grado di farsi carico dei cambiamenti e delle sfide di una umanità messa a dura prova da sé stessa. Non sono io ad essere ingenua, è chi non si pone certi obiettivi a sprecare soltanto il proprio tempo. Magari sono stronza, si…mi si addice di più.
Certamente per me, nascere da genitori che hanno sempre guardato ben al di là del proprio spazio e tempo di vita, ha significato avere un piccolo bagaglio con cui partire.

Nonostante questo, continuo a trovarmi in circostanze in cui mi manca la parola, tanto è il vuoto che percepisco:
“Scusa, spiegami un attimo: tu hai scritto quel pezzo sull’eutanasia perché ti pagano?”
“Ehm…no…si tratta della rivista dell’associazione di cui faccio parte…scriviamo un po’ tutt*”
“Eh…ma ti pagano? Voglio dire, avrai un contratto, suppongo”
“Ma no! Non è il mio lavoro. E’ un associazione culturale, senza scopo di lucro…ci occupiamo di diritti umani, facciamo divulgazione, hai presente?”
“E allora, perché lo fai scusa? Non ti pagano e ci perdi pure del tempo”
“Perché è importante fare divulgazione, coinvolgere, informare. E’ così che si cerca di contaminare l’opinione pubblica e produrre cambiamento. Sono un’attivista, ed utilizzo tutti i mezzi possibili a mia disposizione”
Fine. Lo sguardo della mia interlocutrice è quello attonito, di chi guarda “il mondo da un oblò”, come fossi una che non ha mai capito veramente nulla nella vita, una povera illusa che va in giro e mettere fiori nei cannoni! Io in queste circostanze provo dei brividi di freddo, ma per scaldarmi mi basta pensare che nella mia quotidianità sono circondata di persone con le quali non intrattengo simili assurde conversazioni, magari discutiamo dei contenuti di un articolo o di nuove altre idee.
Nove volte su dieci – ma anche undici su dieci – le persone che ignorano il concetto di attivismo sono le stesse che intrattengono conversazioni su tutto ciò che non va intorno a loro – appena fuori l’uscio della propria casa sia chiaro…fottesega di ciò che capita nel mondo – ma non credono che valga la pensa stare sbattersi troppo per migliorare la situazione. Parole vuote che escono dalla bocca per incontrare altre parole vuote e vagabondare insieme in cerca di un’azione da intraprendere…e invece cadono miseramente a terra schiacciate dal peso di chi le pronuncia solo per passare del tempo. “Se va bene a me, va bene così”, è il motto di queste persone, che non muovono un dito se non per rinforzare le mura a difesa della propria fortezza individualista. Contrariamente a quanto mia nipote possa pensare, io non “litigo” con queste persone, le mie parole cercano compagne di viaggio coraggiose ed intraprendenti, per costruire ragionamenti e dare nuova vita a buone e nuove azioni. Da quelle fortezze partono tutte le critiche ed il linguaggio di odio verso chi invece si attiva per rendere il mondo un posti migliore per chiunque:

I giovani e le giovani che protestano per l’ambiente diventano perdigiorno che, o non hanno voglia di studiare, o non hanno voglia di lavorare. Il fatto che abbiano voglia di vivere in un mondo più pulito di come glielo abbiamo fatto trovare non conta.
Le donne che ogni giorno lottano per i propri diritti e contro ogni discriminazione e violenza, sono egocentriche alle quali non va mai bene nulla. Al pari di tutta la comunità LGBTQ+, ovvio. Una volta si stava meglio: si moriva in silenzio, si partoriva con devozione, si stava a casa con amore, si viveva la propria sessualità senza dare nell’occhio.
Chi si attiva per promuovere un’economia sostenibile consumando prodotti etici, è un/una radical chic. E’ meglio applicare ai consumi il metodo “sticazzi”, basta che costi poco.
Gli animalisti che protestano contro le violenze e le uccisioni di animali da pelliccia, contro la caccia, sono mort* di fame ignoranti e radical chic (termine buttato sempre lì in mezzo a caso) che non considerano che l’uomo ha sempre cacciato per mangiare ed ha sempre indossato pelli animali per scaldarsi. Se è per questo, potremmo continuare a buttare urine ed escrementi dal balcone di casa o curare la tosse andando a respirare nelle gallerie quando passano i treni, lo abbiamo sempre fatto…

Ciò che mi da più fastidio, non è il fatto che si scelga di non perseguire la strada dell’attivismo, ma che si squalifichi chi la sceglie adducendo motivazioni a dir poco imbarazzanti…ma a dir tanto stupide e mediocri.
Basterebbe riconoscere di non avere voglia e interesse, certamente esponendo la propria natura individualista. Ma basta un “grazie” generico, rivolto a chi, in tanti modi differenti, sceglie di stare fuori dal recinto.

“Those who say it can’t be done are usually interrupted by others doing it” – James Baldwin.

L’attivismo trova spazio in ogni ambito di vita vissuta, lavoro compreso.
Come ho già avuto modo di scrivere, a volte il precariato e lo sfruttamento vengono imbellettati con le definizioni di attivismo e volontariato, tessendo una rete di complicità con un sistema di potere che si sfrega le mani e si lecca i baffi, perché ottiene competenza, dedizione, professionalità, al costo di un pacchetto di patatine. Il concetto di dedizione alla causa è talmente abusato che anche nelle aziende private a scopo di lucro, si fa leva sulla motivazione a far crescere l’azienda come giustificazione dello sfruttamento, o si ricorre al mantra “pensa a chi sta peggio di te” per indurre lavoratori e lavoratrici ad accettare condizioni di lavoro assurde. Il fatto che si lavori per avere un giusto salario è fuori moda, quasi offensivo.
A forza di accettare questo compromesso, stiamo perdendo ogni diritto da un lato, e svuotando la pratica attivista dall’altro.
Un conto è scrivere un articolo per un’associazione, partecipare a proteste, campagne, azioni di sensibilizzazione, attività di volontariato, mettendo anche a disposizione competenze specifiche e risorse personali; altra cosa è lavorare per ben più di otto ore al giorno, ricoprire dei ruoli che necessitano un inquadramento contrattuale, assumere incarichi di responsabilità che richiedono autorevolezza e riconoscimento in determinati contesti al pari di altri, ed accettare che tutto ciò venga definito “attivismo” per giustificare l’assenza di tutele e diritti, silenziando ogni voce di protesta. L’attivismo praticato nel luogo di lavoro è ben altra cosa, e praticarlo vuol dire innanzitutto non rinunciare ai propri diritti in nome di compromessi con un sistema oppressivo. Qualcun* si sente chiamat* in causa? Bene, sappiate che vi penso.
L’attivismo richiede coraggio, coesione, comunicazione, continuità nel tempo, capacità di affrontare ed agire i conflitti. Solo così attraverso il tempo l’attivismo diventa collettivo e si fa movimento. Chi crede di utilizzarlo a proprio piacimento ne resta fuori, immobile nel proprio servilismo.
L’attivismo si esprime in molti modi differenti, e conoscerli aiuta a scegliere quello che più ci si addice, ma anche ad isolare il linguaggio di odio. Capita spesso infatti di imbattersi, attraverso i social, nei soliti analfabeti funzionali che si scagliano contro personaggi famosi o anche semplicemente organizzazioni che pubblicano messaggi, interviste, video, azioni intraprese, background personali, a testimonianza del loro coinvolgimento in una particolare causa. Alcune persone, più o meno famose, lo fanno da attiviste, altre a sostegno dell’attivismo. Attraverso i social potete trovare tanti esempi di come una persona, che interviene per parlare di una malattia, si trovi ad essere bersaglio di hate speech per ragioni che inizialmente vanno al di là del contenuto del suo messaggio, per finire con il bullizzare chiunque soffra di quella malattia. L’attività di sensibilizzazione è una forma di attivismo, e ciò che probabilmente non va giù alle persone che vivono nella solitudine delle proprie fortezze, è il fatto che si parli di temi a loro sconosciuti, con linguaggi precisi e non approssimativi, in uno spazio pubblico dove si trovano anche loro, nell’imbarazzo di non capirci un cazzo.
In realtà, abbiamo poche giustificazioni per non attivarci, ma ad alcune persone non manca la fantasia per motivare il proprio in-attivismo.
Recentemente, ho letto il commento di una donna che ho conosciuto molti anni fa, agli albori del mio percorso di attivismo femminista. Nonostante fosse considerata un’attivista di un certo spessore, ho sempre provato un certo disagio in sua presenza: era solita dare grandi lezioni teoriche di femminismo, citando autrici e fonti che dimostravano certamente che avesse studiato, ma nella pratica non riuscivo a scorgere alcuna coerenza. E la cosa peggiore è che ha sempre squalificato ogni altra donna intorno a sé, a meno che non fosse una donna di potere. Ho sempre cercato di essere cortese con lei…ero giovane, insicura, e credevo di non essere abbastanza se una donna di cotanta esperienza mi trattava con sufficienza. Lei dava i voti in “femminismo” alle donne, ed io non volevo un voto basso. E poi…poi niente…dopo di lei molte altre ne ho incontrate, stanno ancora lì, facendo più o meno danni, guardando il mondo dalla loro bolla di autoreferenzialità. A volte sentono di dover intervenire pubblicamente e dare il proprio parere – magari una vocina dentro dice loro che il mondo potrebbe essere interessato, chissà. Allora un bel giorno, mi è capitato di incrociare un suo lungo post-spiegone in cui, partendo da lontanissimo, arrivava in maniera anche piuttosto grottesca ad attaccare una associazione femminista della sua regione, che ha avuto l’ardire di fondarsi e gestire uno spazio di donne per le donne senza fregiarsi della sua collaborazione.
In questo luogo, le scellerate hanno osato, ed osano ancora, organizzare presentazioni di libri, gruppi di auto mutuo aiuto, corsi di artigianato, mostre, fino ad elaborare progetti, coltivare relazioni, pianificare proteste, creare nuove relazioni. Attività alle quali lei non ha mai partecipato. Ma che ha scelto di definire pubblicamente come forme di compromesso con un potere maschile che gestisce enti pubblici e prende decisioni in merito alla gestione degli spazi. Un compromesso che vede le donne impiegate nei lavori tipicamente femminili – cucito, lavoro a maglia, ricamo – a loro assegnati dalla società patriarcale che così le tiene a bada nei loro ruolo e ne impedisce l’emancipazione. Si è spinta fino alla ridicolizzazione delle donne, ma ottenendo unicamente l’approvazione di chi, erroneamente, la considera l’ultima vera femminista sulla terra. Con piacere scopro che non sono molte. Quello che ha omesso – non ignorato, non credo sia ignorante – per attrarre certa approvazione, è che il craftivism è una forma di protesta, di autocoscienza, di relazione.
Il fatto che la storia ce li consegni come “lavoro femminile” che fosse così definito anche come materia scolastica nel 1800, non implica che non se ne possa fare strumento di protesta. Semmai il problema sta nel fatto che sia stato prima definito e poi tramandato di generazione in generazione come un dovere esclusivamente femminile, che doveva essere portato come dote nel matrimonio; non una scelta, ma una competenza da inserire nel bagaglio dei doveri di una donna, tra tutti gli altri strumenti di oppressione. Questo, per la nostra femminista superstite, deve bastare a non farselo piacere in alcun modo. “Guai a voi se vi vedo ricamare, cucire, lavorare a maglia!”, la immagino gridare durante i suoi corsi per il conseguimento del diploma femminista, mentre passeggia tra i banchi stringendo una bacchetta di legno, spalle dritte e sguardo fisso. Fa ridere così, non serve altro.

Mi fermo, e penso a quella bellissima, grandissima bandiera cucita collettivamente dalle donne del movimento femminista negli anni 70, che custodisco gelosamente in casa. Mi fermo, ed immagino cosa accadeva mentre le donne cucivano quella bandiera: le parole, le strategie, l’organizzazione delle proteste, le emozioni, le paure, il senso di libertà, lo spirito di sorellanza, le riflessioni. La storia. Basta questo per passare oltre le vuote lezioni di in-attivismo, e invece rimettermi in carreggiata per cercare di seminare attivismo facendone conoscere le sue diverse forme – oltre al citato CRAFTIVISM o ATTIVISMO ARTIGIANALE – sempre in evoluzione ed in discussione. Tutte le forme di attivismo vengono indicate da parole portmanteau, ovvero dalla combinazione di parti di parole che messe insieme ne fanno nascere di nuove, come Artivismo ed Hacktivismo.

Le varie forme di attivismo che ho intenzione di approfondire e condividete con voi, riguardano l’impegno reale, lungimirante, consapevole di realtà scelgono di sostenere la protesta contro ogni oppressione, ingiustizia sociale, discriminazione. Si tratta di percorsi di contaminazione tra il mondo dell’attivismo e specifiche realtà che non ha a che fare con le tendenze del momento, con secondi fini tendenti allìacquisizione di visibilità. E’ una scelta di vita, che in fondo ognuna/o di noi può intraprendere. Magari approfondendo, potete scoprire anche voi di essere attiviste/i attraverso la vostra arte, i vostri canali social, il vostro stesso lavoro.

 

Quando si verificano quei fenomeni di sostegno occasionali come le meteore, supericiali, per nulla agganciati alle realtà che quotidianamente sono impegnate nell’attivismo, allora stiamo assistendo ad un fenomeno di Color Washing o Woke Washing.

Il Color Washing è una pratica che ha come unico obiettivo il profitto di una determinata azienda, di un personaggio pubblico, che cerca attirare l’attenzione di quella fascia di popolazione consapevole e sensibile rispetto ad uno specifico tema. La comunicazione è ingannevole, in quanto non rappresenta i reali valori dell’azienda o del personaggio in questione, ma ben costruita a fini commerciali. Si tratta di apparire e non di essere. Il messaggio è “ehi, guarda: anche io ho a cuore quello che sta a cuore a te!”

Il termine colorwashing, incontrando le diverse dimensioni dell’attivismo e dell’impegno sociale, si fonde con i diversi colori che li caratterizzano:

PINK-WASHING: il termine è stato coniato dal movimento Breast Cancer Action nell’ambito della campagna Think Before You Pink, per esortare le persone a riflettere su cosa si nasconde dietro le aziende, i leader ed i governi che utilizzano il fiocco rosa a sostegno della lotta contro il cancro al seno ma allo stesso tempo producono prodotti legati alla malattia o finanziano l’industria dei combustibili fossili. Il termine ad oggi sta a rappresentare tutte le azioni che il mondo politico e profit mettono in campo (prodotti, proclami, iniziative) per significare la loro vicinanza alla lotta per i diritti delle donne, contro la violenza, il bodyshaming, gli stereotipi, a sostegno della parità salariale, e così via. Un femminismo di facciata, che produce profitto – e consenso – senza alcuna coerenza nelle azioni: parlando di prodotti, molte brand producono vestiario che incita ai valori del femminismo in Paesi che sfruttano il lavoro delle donne, alle quali è anche precluso l’accesso all’istruzione, alla libertà di scelta, costrette a matrimoni forzati. Parlando di politica, spesso le parole non hanno alcuna coincidenza con i fatti, basta osservare la condizione delle donne nel lavoro, in famiglia, nello spazio pubblico, l’accesso ai diritti sessuali e riproduttivi.

RAINBOW-WASHING: il mese di giugno è il Pride Month, il mese dell’orgoglio LGBTQ, che commemora le proteste di Stonewall del 1969 controle violenze della Polizia di New York nei confronti della comunità LGBTQ+. In questo periodo dell’anno, molte aziende mostrano il loro sostegno alla comunità LGBTQ+ mettendo in vendita prodotti con i colori dell’arcobaleno. Una bellissima iniziativa, peccato che in molti casi le aziende producano ciò che vendono in Paesi in cui l’omosessualità è illegale, punita con la pena di morte. Uno dei casi più eclatanti è quello di Primark, che nel 2020 ha lanciato una serie di capi dal nome “Pride”, destinando il 20% delle vendite a sostegno di Stonewall . Tutto molto bello, peccato che i capi venduti venissero prodotto in Turchia, un Paese in cui i diritti civili non vengono rispettati è l’omofobia è dilagante.

B(I)PoC WASHING: l’abbreviazione B(I)PoC è un termine che si riferisce a Black, Indigenous e People of Color. Il termine è esplicitamente inteso a rendere visibili queste identità al fine di contrastare il razzismo verso le persone nere e l’invisibilità delle comunità indigene. Molte aziende tentano di apparire inclusive, antirazziste, soltanto da un punto di vista esteriore, senza perseguire al proprio interno azioni coerenti e non discriinatorie. Il termine pià utilizzato è “brown-washing”, ma io preferisco utilizzare quello più inclusivo. Accetto suggerimenti.

WHITE-WASHING: è il tentativo di impedire alle persone di scoprire i fatti veri su una situazione, ad esempio i marchi che non si assumono responsabilità quando accadono tragedie come il crollo del Rana Plaza avvenuto il 24 aprile 2013 a Savar, nella periferia di Dhaka, una delle città più produttive del Bangladesh. La tragedia provocò la morte di 1138 persone ed il ferimento di 2.500 e simboleggia la conseguenza della produzione ad ogni costo: nella fabbrica tessile infatti erano impegate persone che lavoravano senza sosta in un edificio non adibito a quello scopo. Un disastro assolutamente prevedibile, soprattutto perchè erano state segnalate delle crepe. L’edificio fu evacuato per i controlli e fu dichiarato a norma, pertanto la produzione riprese senza sosta: i prodotti erano commissionati da aziende occidentali tra le quali Piazza Italia, Benetton, Primark. Da questa tragedia è nato il movimento Fashion Revolution.

Le aziende sfruttano il concetto di “attivismo pigro” per il proprio profitto: le persone soddisfano il proprio bisogno di acquistare beni materiali, ma alleggeriscono le proprie coscienze se il brand sostiene una causa legata ai diritti civili.

Ma non abbiamo molto altro tempo per rendere il mondo un posto migliore, e nessuna giustificazione: possiamo facilmente verificare la coerenza delle aziende ed anche interrogarle direttamente attraverso i loro canali social, potete vedere come dando un’occhiata qui.

Possiamo anche andare sul sicuro facendo acquisti consapevoli e favorendo il mercato equo solidale, che sostiene il commercio e la cooperazione internazionale e garantisce l’assenza di sfruttamento, oltre ad aprirci gli occhi sul mondo attraverso il racconto di ogni singolo progetto che ha come risultato il prodotto che stiamo acquistando. Possiamo farlo senza neanche doverci muovere da casa, ed anche sostenendo attività locali, date un’occhiata qui.

Infine, disobbedire. Disobbedire ad un sistema che ci vuole schiave/i di un consumo a costo della vita e della libertà di altri esseri umani. Ad un sistema che costruisce consenso riempiendoci la testa di falsi proclami, di discorsi vuoti e utili solo alla propria autoconservazione.

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