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DIAMO VITA…ALLA MORTE

Tempo di lettura: 14 minuti

“Remember, when you are dead, you do not know you are dead. It is only painful for others.
The same applies when you are stupid.”(Ricordate che quando siete morti, non sapete di esserlo. È doloroso solo per gli altri. Lo stesso vale quando si è stupidi) – Ricky Gervais –

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Durante la mia infanzia, i miei genitori non hanno mai evitato di parlarmi della morte. Non sono cresciuta in uno di quei contesti familiari in cui ai bambini non si fa vivere l’esperienza del lutto, della perdita, per preservarli da qualcosa che fa parte dell’evoluzione naturale della vita, di ogni vita. Si nasce, si vive, si muore. Non ricordo di avere fatto particolari domande sulla morte, ma di certo la mia memoria non arriva tanto in là da ricordare certi dettagli. La morte di mio nonno paterno, che avvenne quando avevo undici anni, fu la prima esperienza di morte di una persona cara. Ricordo tutto come fosse ieri perché non mi fu negato di vederlo disteso nella bara, e neanche di assistere alla sua sepoltura. Ricordo che, mentre ci trovavamo in casa ad attendere la chiusura della bara, una zia che non avevo mai visto prima di allora si avvicinò per dirmi “ma perché stai qui? Perché piangi? Non dovresti vedere certe cose, è meglio ricordarlo da vivo, non da morto”. Io non ho capito fino in fondo questa frase, oltre al fatto che chiedere ad una persona perché pianga la morte di qualcuno è sintomo di mancanza di empatia che però poi appresi essere un tratto distintivo della zia in questione. Vedere mio nonno morto, seguire tutta la ritualità della sepoltura – non fu celebrato alcun funerale, per sua volontà, e non fu cremato come invece avrebbe voluto, perché al tempo occorreva una dichiarazione scritta che lui non aveva lasciato – non ha in un batter d’occhio cancellato tutti i ricordi di lui da vivo, ha semplicemente reso tangibile la sua morte: non c’era più, e questo è ciò che accade ad ognuna/o di noi, perché non vedere con i miei occhi un evento naturale come la morte? Certo, è un evento che lascia dei segni profondi, che ha delle conseguenze sulle nostre vite, non è come andare al cinema a vedere un film. E’ la realtà: le persone muoiono, e ci mancano, proviamo rabbia, dolore, incredulità, portiamo con noi il trauma di alcune perdite per anni o anche per tutta la vita, abbiamo paura della morte, la odiamo perché porta via pezzi di noi, abbiamo bisogno di tenere vive le persone attraverso la loro celebrazione, i ricordi, e tutto ciò che ci da la sensazione di non averle lasciate andare. Va tutto bene, non trovo ci sia nulla di sbagliato in questo, ciò che trovo opprimente – è l’espressione che ricorre ogni volta che ne parlo – è il fatto che da un lato vogliamo mantenere in vita il ricordo di una persona e celebrarne la vita, dall’altro costruiamo luoghi di sepoltura dove non ci sono spazi per celebrare quella vita.

Con i miei genitori si andava al cimitero, non troppo spesso, non in occasioni particolari. Mio padre in particolar modo, mi portava a vedere le tombe monumentali, quelle dei partigiani, quelle antichissime, nella parte più vecchia del cimitero. Io, nel muovermi in questo spazio così vasto, mi rendevo conto di trovarmi in una immensa distesa di asfalto e marmo – oggi ancor più grande, che somiglia per architettura ad un misto tra un carcere di massima sicurezza ed un lager, con le torrette perimetrali – una vera e propria città dei morti, che riproduce le distinzioni dell’abitare in vita: le famiglie prestigiose possiedono delle mastodontiche cappelle con ingresso autonomo, serratura, allestimenti più o meno faraonici, talvolta busti e statue; la classe media solitamente riunisce i propri morti in tombe plurifamiliari in cui ognuno ha il suo spazio nella suddivisione multipiano, il tutto sovrastato da marmo a coprire, definire, distinguere…un condominio insomma; poi ci sono i loculi, ovvero il proletariato, coloro che per varie ragioni – economiche o culturali – hanno scelto di non trascorrere la morte in condominio o in villa: il loculo è un monolocale, grande poco più della bara che deve entrarci, inserito in una grande cornice di marmo multipiano, insieme ad altri loculi, fuori terra; infine, l’inumazione, ovvero la sepoltura in una cassa di legno senza rivestimento di zinco, nella nuda terra. Ma questi ultimi dopo dieci anni vengono riesumati e ciò che resta dei loro corpi viene messo in una cassa più piccola e trasferito in un loculo, per far spazio ad altre inumazioni. Quindi, sempre di marmo si finisce ricopert*.
I miei genitori mi facevano sempre notare queste differenze culturali e di ceto, nel nostro passeggiare per il cimitero. Molte persone, pur di estrazione prestigiosa, scelgono di farsi inumare o di finire nei loculi o, viceversa, molte famiglie non agiate fanno immensi sacrifici per poter acquistare una cappella, per dimostrare di non fare parte della massa o perché il dolore è talmente grande che costruire una casa per la persona cara in qualche modo garantisca maggiore protezione, e nell’andarle a far visita si ha la sensazione di andare nella sua casa.
Recarsi al cimitero non era per noi un rito, come per molte altre famiglie – spesso le stesse che si accalcavano in Chiesa la domenica – ma piuttosto una specie di gita, durante la quale si raccontavano aneddoti pre e post mortem delle persone che non erano più con noi. Si, anche post-mortem, perché essendo la tomba di famiglia di mio padre un condominio molto affollato – è una famiglia numerosa e movimentata la mia – ogni volta che si metteva giù una salma, ci si affacciava per fare la conta di chi era posizionato dove, e dei posti rimanenti per i presenti, che ci tenevano tanto a stare lì. Ragionamenti pre mortem, d’altronde dovevano assicurarsi un tetto sulla testa, e stare tutti insieme.
Al cimitero si entra mantenendo più o meno tutt* lo stesso atteggiamento pacato, con i fiori da cambiare, le tombe da pulire – altrimenti chissà cosa pensa la gente, che di quei morti lì non si occupi nessuno, abbandonati lì come…come…morti appunto – è un continuo guardarsi intorno, vedere se qualcuno ha portato i fiori ai vicini, se sono freschi, se non siano fiori finti, perchè il fiore finto sta ad indicare che al cimitero ci si va poco! Perché dei morti bisogna avere cura, fisicamente intendo, non basta celebrarne il ricordo. Ricordo di uno zio che criticò mia madre perché noi figli non andavamo spesso al cimitero, e questo non era rispettoso. Mia madre non se la prese, spiegò che noi andavamo al cimitero se e quando volevamo, perché non era quello che stava ad indicare l’affetto provato per le persone in vita. Siamo stati fortunati, perché non siamo stati trascinati nel vortice delle ritualità di facciata che avrebbe potuto tramandarsi per generazioni, e questo certamente mi ha aiutata ad osservare certe dinamiche. E mi ha salvata da quel senso di oppressione che provavo ogni volta che ci andavo. Potevo scegliere, come avevo potuto scegliere se andare in Chiesa o no, fino allo sbattezzo in coerenza con le mie convinzioni. Alcune delle mie amiche non avevano scelta: dovevano andare in Chiesa la domenica, andare al cimitero con i genitori ogni settimana, ricevere tutti i sacramenti nell’ordine previsto e nei tempi previsti, e seguire tutta la strada che per loro aveva stabilito Dio ed il patriarcato. Poi che c’entra, per il resto del tempo in famiglia si spettegolava su chiunque, si cacciava il venditore ambulante con toni offensivi, si evitava ogni contatto con i nuovi vicini stranieri e si fingeva di non sentire la violenza all’interno delle case che spiavano. Tutto regolare insomma. E quelli strani eravamo noi che non andavamo in Chiesa e al cimitero…
Crescendo, ho continuato ad andare raramente al cimitero, lo faccio unicamente se ne sento il bisogno. Solo quando è morta la mia nonna materna – avevo venti anni – ho avuto per un po’ l’abitudine di andare al cimitero una volta alla settimana per portarle dei fiori, e facevo il giro di amici e parenti per lasciare un fiore ciascuno. Poi ho ricominciato ad avvertire quel senso di oppressione: il marmo, le cappelle che sembravano villette a schiera, il pensiero di tutti quei cadaveri in putrefazioni sigillati sotto di me ed intorno a me…come potevo vivere serenamente il momento che avevo scelto per ricordare le persone a cui volevo bene? Come potevo sedermi e passare lì del tempo?  Il cimitero è come il bar: vai, prendi un caffè ed esci. Vai, lasci i fiori, pulisci, se sei credente ti fai il segno della croce, dici una preghiera, poi a casa. Che stai a fare su una lastra di marmo in inverno gelida ed in estate rovente? Fatta qualche eccezione, il cimitero nelle nostre città si vive in silenzio. Non vi si svolgono eventi se non quelli commemorativi istituzionali. Non si può scegliere come celebrare il ricordo di chi non c’è più, se questa celebrazione è considerata offensiva perché chiassosa o appariscente. Non si suona, non si canta non si balla in un cimitero, non si fanno picnic, non si gioca a palla e non ci sono i giochi per i bambini, non ci sono panchine su cui sedersi.  Si entra mantenendo un profilo sobrio e muovendosi lentamente, attraversando questo luogo come in una sfilata.
Di morti ne ho vissute: premature, suicide, inaspettate, sofferte, invocate, ignorate. E conseguentemente, ho vissuto i lutti e tutto ciò che è legato al ricordo, ciò che mi opprime di più in assoluto è la ritualità fatta di rigide norme, di incensi, di frasi fatte, di “riposa in pace” e “che la terra ti sia lieve” – peccato che la maggior parte dei defunti la terra non la sfiori neanche – che di questi tempi si sprecano sui social networks, di preti che liberano dal peccato e che quasi quasi ci dicono che se si muore dopo aver tanto tribolato, si è più fortunati e vicini a Dio – quindi che culo. Mi opprime la carovana al cimitero, la tumulazione, le teste basse ed i silenzi. Non perché li trovi fuori luogo, ma perché fanno parte di una convenzione sociale che non ha nulla a che fare con il dolore della perdita. Il dolore non può essere incatenato nella ritualità, non può essere omologato, come ogni sentimento ha a che fare con la soggettività. La commemorazione non può essere sostituita dalla manutenzione del luogo di sepoltura, merita di più.
I miei genitori mi ricordano continuamente che loro, quando moriranno, tutta questa roba non la vogliono, che vogliono essere cremati, che non vogliono frotte di gente a far la fila per le condoglianze.
Più che atea, mi definisco “non curante”: vivo la mia vita secondo valori che ho coltivato grazie all’esperienza, all’educazione ricevuta, alle persone incontrate a volte per fortuna, altre per disgrazia. E vorrò finire la mia vita con la consapevolezza di avere lasciaro qualcosa dietro di me, di avere gettato dei semi per contribuire a migliorare la vita di altre persone e di questo mondo. Non so cosa ci sarà dopo la morte, credo nulla di sorprendente, ma nessuno di noi può dirlo, forse dovrò ricredermi e non sarebbe la prima volta. Sarò lì, e lo scoprirò, come ho fatto esattamente con la vita. Questo non vuol dire che in vita io non provi il dolore della perdita, la mancanza delle persone a cui ho voluto bene. Ma non voglio vivere questa esperienza seguendo l’ennesima pratica socialmente accettata, e l’idea che la morte debba essere rinchiusa in un enorme monumento che sta lì a ricordarci che dobbiamo temerla. La morte è certamente trasformazione, e non vi è nascita senza morte.

Nel mio girovagare indossando gli occhiali della curiosità, non nego di andare anche per cimiteri, perché il rapporto con la morte ci dice molto di una civiltà. Per una ficcanaso come me, andar per cimiteri è come leggere un libro, che ci parla della storia di un popolo e del suo rapporto con l’unico evento, dopo la nascita, che di certo ci accomuna tutte e tutti. Nel momento in cui nasciamo, infatti,  abbiamo due certezze: che dal primo nostro respiro, non smetteremo più di respirare per vivere; e che moriremo prima o poi, come ogni essere vivente.

Nel ricercare cimiteri da visitare, ne ho trovato uno che ha particolarmente attirato la mia attenzione, e aggiunto una nota di meraviglia alla mia vita. Quindi, durante uno dei tanti periodi dell’anno trascorsi in Baviera con marito e cane, decidemmo di organizzare una gita domenicale al cimitero.


Il Naturfriedhof Schlosswald  si trova all’interno del Parco Naturale di Regental, che fa parte della Foresta Bavarese.
Avevo visitato i cimiteri inglesi, scozzesi, irlandesi, dove il verde ed il contatto con la natura non mancano. Ma mai mi ero imbattuta in un cimitero naturale, nel bosco. Questo cimitero naturale è stato voluto dall’amministrazione comunale di Nittenau, con la disponibilità della famiglia von Drechseled che per secoli si è presa cura del bosco, che è stato inaugurato nel 2015. Esistono amministrazioni che continuano a cementificare ed altre consapevoli della necessità del contatto con la natura per riappropriarsi della pace e la libertà necessarie ad affrontare il distacco. Le seconde rappresentano tutto ciò che ad esempio in Italia non viene contemplato, a causa dell’incapacità di considerare e definire processi di innovazione attraverso l’analisi del contesto sociale e dei bisogni di una società che attraversa continuamente nuove sfide. Ed anche a causa di una cultura clientelare che invade ogni aspetto della nostra vita, e della nostra morte…diciamocelo. I nostri cimiteri sono miniere d’oro, pensate per un attimo ai costi che vi sarà capitato di dover sostenere.

Arrivando da Nittenau, si sale verso la collina in mezzo ai campi coltivati fino ad arrivare al cimitero: non ci sono recinzioni, cancelli, barriere, solo il bosco ed i vari sentieri.

C’è una grande mappa del bosco, e delle strutture in legno perfettamente in armonia con il profilo boschivo: la casetta di legno con l’ufficio, lo spogliatoio per il personale che fa la manutenzione, una casetta che protegge i contenitori per la raccolta differenziata da eventuali incursioni da parte degli animali che si aggirano nel bosco, un hotel per gli insetti. Tutto perfettamente curato, ma in modo naturale, senza prati all’inglese, fioriere, vasi. E’ la natura che decora tutto, che gestisce la propria manutenzione. Proseguendo, nel punto più alto che affaccia sui campi coltivati che in primavera si dipingono di giallo, uno spazio aperto con due grandi pagode in legno ed una croce: quello è il luogo in cui ci si raccoglie per commemorare, pregare, o semplicemente cercare pace. Il paesaggio di fronte ed i suoni della natura sono di conforto per chi è in lutto.

Come in ogni bosco, si può andare con il cane, perché appunto entriamo in un luogo naturale, non in un bunker. Prima di andare, non avevamo esplorato la pagina web del cimitero, quindi camminando cercavamo di capire esattamente quale fosse il concept di questo luogo. Iniziammo a vedere delle decorazioni di vetro applicate sugli alberi, o sulle pietre a terra: su ognuna di loro sono raffigurate delle immagini di natura, animali, paesaggi, simboli religiosi, su qualcuna c’erano anche dei nomi e delle date di nascita e di morte. Notammo delle placchette di acciaio con un QR-code: inquadrandolo, si può vedere a chi è assegnato quell’albero o quella roccia. Non c’è altro, non ci sono vasi di fiori, candeline, pupazzetti, immagini sacre, busti di marmo … nulla. c’è il canto degli uccelli, qualche daino che in lontananza controlla i movimenti, certamente dei cinghiali che si tengono a distanza. E la natura che con il mutare delle stagioni ridipinge continuamente il paesaggio, spoglia e riveste alberi e rocce di foglie e muschio. Alcune panchine qua e là, dove sedersi per leggere, riposare, mangiare, parlare. E’ esattamente il luogo in cui avviene la trasformazione della nostra esistenza: torniamo alla terra, alla natura, per dare nuova vita. Esattamente lì. Quell’oppressione provata tante volte mi ha lasciata, ed ho iniziato a costruire un rapporto diverso con la morte – con la mia morte prima di tutto – perché ne ho toccato con mano il significato che in diverse lingue ricorre e ci ricorda che alla fine torniamo ad essere

“Asche zur Asche, Staub zum Staube” – in tedesco
“Cenere alla cenere, polvere alla polvere” – in Italiano
“ashes to ashes, dust to dust.” – in Inglese
“ashes to ashes, funk to to funky” – nella lingua di David Bowie!

Le ceneri dei defunti, contenute in urne di legno naturale, vengono sepolte ai piedi degli alberi o delle rocce, che vengono scelti dalla famiglia del defunto, a meno che quella scelta non sia stata fatta dalla persona defunta mentre era ancora in vita. Chi vi si reca per commemorare un defunto, non ha altro da fare se non dedicarsi a questa attività, perché non deve fare alcuna manutenzione.
Non conosco ovviamente nessuna delle persone le cui ceneri sono sepolte in quel bosco, ma muovendomi in quel bosco le ho sentite parte di me, perché fanno parte insieme a me dell’universo, lo nutrono, fanno parte della natura che crea e si trasforma.

Poi, alla fine, se morendo dovessi scoprire che c’è qualcosa, preferisco di gran lunga andar per boschi insieme e conoscere nuova gente, che stare chiusa in un condominio di marmo a battibeccare per questioni di spazio, è già troppo doverlo fare in vita!
I costi per la sepoltura delle ceneri nel cimitero naturale sono relativamente bassi, soprattutto se si pensa al fatto che non vi sono costi di manutenzione. Non riesco a trovare nessun motivo per non praticare soluzioni di questo tipo in ogni Comune, piccolo o grande. Ogni paesaggio può offrire luoghi di sepoltura diversi, senza alcuna controindicazione. E finalmente si potrebbe dare dignità al dolore e giusta fine alla vita.

Andrea Pastore

Andrea Pastore è un caro amico, laureato in Architettura a La Sapienza, da sempre interessato alle dinamiche socio culturali del vivere, ha la capacità di far convergere la sua passione per la progettazione con i diritti umani, la tutela dello spazio pubblico impegnandosi in progetti socio culturali come quello che sta seguendo ora nel ruolo di direttore artistico del Festival Viale delle Metamorfosi.

Con Andrea trascorro piacevoli serate a bere vino e parlare della nostra visione del mondo, di relazioni umane, di progetti, di cambiamento. Parlare di fine vita per me è naturale, riconosco che molte persone non si sentano a proprio agio nel farlo, a volte per una forma di scaramanzia, altre per non dover affrontare perdite e dolore. Fortunatamente per me, la mia ristretta cerchia amicale e familiare non ha pregiudizio. Ma ciò che ho trovato sorprendente è il fatto che un caro amico abbia scelto di affrontare un tema a me così caro e così complesso, di fare ricerca fino a sviluppare una tesi di laurea sui cimiteri e sulla progettazione di un forno crematorio.  Il cimitero contemporaneo, le sue criticità, la vita vissuta in una città in cui il cimitero rappresenta, come Andrea lo definisce, “un luogo morto”. Andrea ha stimolato ancora di più la mia curiosità, il mio bisogno di osservare, di comprendere, soprattutto perché ha affrontato questo complesso lavoro con grande passione ed intuito.

Andrea ha acconsentito alla pubblicazione di un podcast su questa sua ricerca che ho pensato di condividere con tutte e tutti voi perché possiate come me trovare uno stimolo ad allargare le vostre conoscenze, riflettere sulle vostre emozioni, trovare una ragione per agire un cambiamento non secondario, perché indistintamente riguarda ognuna ed ognuno di noi. E magari vi viene la voglia di andare per cimiteri!

Vi auguro buon ascolto, e portate pazienza: leggere ad alta voce non è il mio punto forte, saprò migliorare con il tempo!

 

 

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1 commenti su “DIAMO VITA…ALLA MORTE

  • Emanuela Cristiana Curini ha detto:

    Bello questo approfondimento.
    La sorella Ina, della mia cara amica Petra è in un bosco vicino a Francoforte.
    Mi potrai, quando sarà, trovare accanto a Sheela.

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