Generale, Self care
“CURA DI CHE?!”
26 Aprile 2022
“Self care”, ovvero la cura di sé, l’autocura: un’espressione ormai entrata a far parte del nostro vocabolario quotidiano, spesso abusata e ridotta a brandelli da atti pratici che nulla hanno a che vedere con il suo profondo significato. Un po’ come tutti quegli anglicismi che si utilizzano nei discorsi per darsi un tono, per dimostrare che si padroneggia non solo una lingua ma anche un pezzo di sapere. Non ho nulla contro gli inglesismi e le espressioni linguistiche mutuate da altre lingue, che spesso ci aiutano a sintetizzare significati ampi, come nel caso del catcalling, ma parto dal presupposto che prima di tutto occorra esercitare curiosità verso il significato profondo di ciò che si sta verbalizzando, e quindi arricchire il proprio sapere, perchè il linguaggio non è qualcosa che si indossa a corredo di un immagine accattivante per promuovere un’azienda o la propria figherrima capacità di omologazione a ciò che qualcun altro ha etichettato come indiscutibilmente “top”. Questa è la mia opinione, non un dogma, che muove dalle sensazioni che provo di fronte a qualcuno che sparge inglesismi come coriandoli ma non saprebbe neanche svolgere una elementare conversazione in inglese, anzi fatica pure a coniugare i verbi in italiano. Non ho alcuna intenzione di divulgare consigli sulla pratica del self care, il web è pieno di consigli pratici di chi ci spiega come fare a star bene anche se non ci conosce. Ho intenzione invece di stimolare la curiosità individuale, unico motore per una serena e duratura pratica di self care.
La pratica di self care per noi occidentali rappresenta molto spesso quell’attività fisica-spirituale-mentale che svolgiamo in un tempo ben preciso all’interno della frenesia del quotidiano, meccanicamente e generalmente seguendo delle regole dettate da altri, senza farci troppe domande: perché quotidianamente dobbiamo arrivare da qualche parte, superare qualcuno o noi stessi/e, non mollare, struggersi per essere prime/i, dimostrare di essere migliori, di essere consapevoli che solo con la fatica ed il sacrificio si raggiungono i migliori risultati: NO PAIN, NO GAIN – un’espressione che Jane Fonda utilizzava durante le sue sessioni di workout, circoscritta al contesto dell’allenamento fisico, che oggi viene superficialmente applicata all’intera esistenza umana da chi vive la vita come un gladiatore nell’arena, combattenti impavidi che mirano alla gloria attraverso la tribolazione. Contenti loro…alcuni talmente tanto che scelgono di farsi tatuare questo motto. Trovo oltremodo irritante questa ormai diffusa convinzione assunta come dogma secondo la quale, in ogni ambito della nostra esistenza, solo attraverso il sacrificio e la sofferenza raggiungiamo la soddisfazione.
Allora la tribolazione per il raggiungimento dell’olimpo delle soddisfazioni diventa politica aziendale, comunicazione social, reality show, relazione quotidiana, metodo per spronare la prole a diventare lottatori nell’arena della vita.
“Dai, dai, dai cazzo! Corri, salta gli ostacoli, rompi il fiato, travolgi chi intralcia il tuo cammino, non fermarti a chiedere o a chiederti, fai vedere che hai una risposta per tutto, il nemico è pronto a fotterti, non dargliela vinta, se rallenti e mostri la debolezza di chi si chiede, la debolezza del filosofo, poi non lamentarti dei tuoi FALLIMENTI. Al limite, dedica 15 minuti al giorno allo yoga, alla meditazione, che ti fa bene…”. Ecco, questo è il ruolo a cui abbiamo miseramente ridotto il self care…15 minuti di meditazione, o una seduta da parrucchiere ed estetista, ma sempre perché qualcun altro ci ha indotti/e a credere che la cura di sé sia questa.
Difficilmente, chi si sveglia la mattina perché deve sbrigarsi a raccogliere tribolazioni in nome della soddisfazione, contempla il fatto che il self care è il diritto umano fondamentale – esatto, FONDAMENTALE – di promuovere il proprio benessere, ovvero la propria salute mentale, fisica e spirituale. È il diritto di poter prevenire le malattie – prima ancora che di curarle – e di mantenersi in salute. Ma cosa vuol dire “mantenersi in salute?” Eh…qui casca l’asino! Fermatevi per un attimo, sospendete la lettura, chiudete gli occhi se volete e chiedetevi “cosa vuol dire per me ‘mantenermi in salute’?”. Pensateci un po’, magari scrivetelo, perché è importante restare in contatto con le nostre risposte che nel tempo possono mutare, ed il loro mutamento rappresenta nel bene e nel male una nostra evoluzione.
Difficilmente riusciamo a considerare tutto ciò che realmente contiene questa espressione, e molto dipende dal contesto sociale e culturale nel quale siamo nat* e/o cresciute/i il quale, garantendo o meno il libero accesso a questo diritto, fissa in noi ciò che è fondamentale da ciò che non lo è.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce così la cura di sé
“la capacità di individui, famiglie e comunità di promuovere la salute, prevenire le malattie, mantenere la salute e far fronte a malattie e disabilità con o senza il supporto di un operatore sanitario”
All’interno di questa definizione rientra tutto ciò che riguarda l’igiene, la nutrizione, lo stile di vita, i fattori socio economici ed ambientali, e l’obiettivo è quello di migliorare aspetti della vita come l’autostima, l’autonomia, la partecipazione alla comunità, il benessere della comunità, e così via.
Qui sotto potete vedere esattamente la molteplicità delle dimensioni del self care, attraverso una cornice concettuale che a mio parere dovrebbe essere affissa nelle scuole al posto del crocefisso, perché chiunque possa ogni giorno acquisire nuove consapevolezze di sé, ed avere come unico riferimento la libertà di scegliere come praticare la cura di sé. Per poter garantire una crescita individuale e sociale orientata alla cura di sé ed al benessere.
Questa cornice concettuale, che ha al centro un approccio basato sulla persona, rappresenta molto chiaramente il punto di partenza per affrontare la cura di sé attraverso interventi, tecnologie, servizi che ne garantiscano la realizzazione e l’evoluzione. I principi fondamentali rappresentati sono quelli che devono necessariamente guidare servizi, contesti e responsabilità del sistema che ruota intorno alla persona.
Come potete osservare, il percorso di vita rientra tra questi principi, insieme ai diritti umani, alla parità di genere, all’intervento olistico, ed all’etica. Sono al centro, non ai margini, non fuori da questa mappa.
Pensate a come sarebbero diverse le nostre vite, le nostre relazioni, le nostre priorità, se vivessimo in una società che ha talmente introiettato questa cornice da viverne ogni suo aspetto con assoluta naturalezza, sin dalla nascita, in ogni contesto. Non una conquista, ma un punto di partenza per successive evoluzioni.
L’attenzione al self care porta con sé quel benessere che funge da strumento indispensabile per affrontare le difficoltà della vita personale, della comunità di riferimento, del mondo intero.
Ora vi chiedo di sospendere nuovamente la lettura per chiedere a voi stessi/e “vivo in un contesto culturale e sociale che ha introiettato tutto ciò? Godo del diritto di accedere a tutto ciò che garantisce la cura di sé? Ho mai considerato tutti gli elementi che compongono la cura di sé?”
Da molti anni mi interesso del concetto di salute e benessere individuale come pilastro del benessere collettivo, perché è a partire da noi stessi/e che possiamo migliorare il mondo in cui viviamo sotto ogni aspetto, nessuno escluso, basta osservare lo schema sopra.
Ovviamente la lente con cui osservo e mi muovo in ogni contesto è sempre quella femminista: anche se ovvio, trovo utile sottolinearlo.
E sempre in ottica femminista, è la mia personale esperienza che muove il mio stare al mondo e le riflessioni su ciò che mi circonda: ho sempre creduto nella cura del benessere psichico individuale e collettivo come prevenzione non solo delle malattie, ma anche dei disagi e dei conflitti, come seme per la coltivazione di saperi. E’ una pratica che parte dall’ascolto e dal dialogo costruttivi e per questo può generare soltanto benessere.
Pur vivendo in un Paese, l’talia, che di certo non rende facile questa pratica, credo che promuovere la cura di sé sia indispensabile per invertire il processo, diffondendo consapevolezza fino a generare cambiamento.
Pur credendo fortemente, mi sono spesso imbattuta in contesti e persone che hanno del tutto ignorato la questione del benessere anche nel suo minimo e banale significato. E’ qui che avviene lo scontro con una cultura che mira a non garantire troppo benessere per non produrre coesione, al fine di perpetrare quella mediocre corsa ad ostacoli in cui pochi vincono e lo fanno a discapito di chi non ha resistenza e gambe lunghe. Nella vita quotidiana, raramente capita di tenere conversazioni – al di fuori del contesto culturale e di attivismo di riferimento – che tengano conto del reale significato della cura di sé, piuttosto mi trovo ad essere annoiata di fronte alle conquiste tribolate di chi ha il petto pieno di medagliette, contempla il prossimo solo se utile a dimostrare di essere migliore e non ha tempo per quelle cazzate riportate in quel banalissimo schema che per loro è buono per chi nella vita non ha un cazzo da fare. Per quanto riguarda il lavoro…beh…in Italia, potrei fermarmi qui ma vale la pena mostrare l’arretratezza per stimolare piccole ribellioni quotidiane: ho lavorato ininterrottamente per almeno venti anni e, senza entrare troppo nei particolari dei diversi contesti, posso affermare con assoluta certezza ed anche attraverso cicatrici del corpo e dell’anima, che la pratica del self care come strategia alla base della prevenzione di malattie, conflitti, mobbing, burn out, non solo non era minimamente contemplata, ma talvolta – fate come se avessi scritto “sempre” – scientificamente evitata per non rischiare che il benessere producesse dialogo, solidarietà, complicità: tutti elementi che potevano mettere in seria discussione un sistema di controllo e gestione che mirava alla precarietà sotto ogni aspetto.
C’è chi tutto questo non lo nota, proprio perché non abbiamo introiettato il self care al punto da farne pratica diffusa di vita quotidiana. Anzi, chi lo nota, lo fa notare ed agisce pressione perché quel diritto fondamentale venga garantito, diventa immediatamente elemento sgradito da emarginare e possibilmente abbattere. Negli ho fatto del tutto per potermi garantire questo diritto nella mia vita privata. Ma non può funzionare, se ogni giorno ci si trova a dover fronteggiare l’ostilità del mondo fuori. E caspita, negli ultimi anni il mondo fuori era veramente armato fino a i denti! Dopo aver provato a saltare gli ostacoli per potermi mettere in salvo, ho scelto di rallentare e fermarmi, anche se il mondo fuori continua a brontolare ed a correre.
Ho scelto di dedicare una parte del mio blog al self care anche se in realtà ritengo che tutto il mio spazio virtuale risponda a questa idea, tuttavia vorrei tentare di toccare ogni singolo aspetto di quella cornice concettuale, per poter coltivare dal basso la pratica di questo importante e primario diritto, con la consapevolezza che in fondo può bastare poco per contaminare il mondo. E che condividendo il bello, i vissuti, attraverso uno spazio in cui non occorre tribolare per vincere, possiamo veramente fare della vita un viaggio meraviglioso. E’ la capacità di meravigliarci che nutre il nostro stare al mondo, non la -falsa – certezza di avere tutte le risposte. Non dobbiamo per forza correre da qualche parte e raggiungere risultati standardizzati per poter dire di vivere al meglio, abbiamo bisogno di stare nel nostro tempo, di curarci seguendo i nostri bisogni. Ed abbiamo il diritto di vivere in un mondo che tenga conto di questo nostro diritto, che non ci colpevolizzi, che non ci privi del benessere in ogni contesto.