Ispirazioni

GRACE ROBERTSON OBE

Tempo di lettura: 5 minuti

Nata il 13 luglio 1930 a Manchester, è stata una delle fotografe più importanti della storia. Suo padre, Fyfe Robertson, era un giornalista che nel 1949 iniziò a lavorare per il Picture Post, una rivista di fotogiornalismo liberale, antifascista e populista, fondata nel 1938 e considerata una rivista pioniera del settore perché per la prima volta documentava attraverso la fotografia la vita pre belli, bellica e post bellica in Gran Bretagna diventando una finestra sul mondo per la popolazione. All’epoca il fotogiornalismo era un lavoro accessibile solo agli uomini, come molti altri, ma Grace non fu ostacolata dalla sua famiglia quando espresse il desiderio di intraprendere questa esperienza di lavoro. Ciò non era affatto scontato in un’epoca in cui alle ragazze della classe media erano riservate poche ambizioni prima del matrimonio, ovvero quelle di lavorare come insegnanti, infermiere, segretarie.
Fu osservando scene di vita quotidiana che nacque in Grace il desiderio di immortalarle. Inizialmente, e per un breve periodo, utilizzò lo pseudonimo di Dick Muir per pubblicare i suoi scatto con il Picture Post: non voleva né essere giudicata per essere la figlia di Fyfe Robertson, né per essere una donna.
Il primo incarico che ricevette fu quello di immortalare la vita dei tosatori di pecore a Snowdonia, nel Galles.
Dopo aver ricevuto l’incarico, nel 1952, di seguire e documentare il viaggio della compagnia di ballo Bluebell Girls in Italia, decise di dedicare la sua attività di fotografa alle donne per il resto della sua vita.
La sua serie più famosa è Mother’s Day off, attraverso la quale documentò la gita a Morgate di un gruppo di donne della classe media operaia, che solitamente passavano il tempo insieme. Il Picture Post inizialmente non accettò questa sua scelta di fotografare soltanto il mondo femminile – benchè appartenenti alla classe operaia – quindi non coprì le spese di questo lavoro.
Prima di questa gita, Grace aveva familiarizzato con il gruppo di donne, come era solita fare, per poterle poi fotografare trovandosi integrata nel gruppo e non come elemento esterno di disturbo che avrebbe alterato la spontaneità dei comportamenti.
Donne tra i cinquanta ed i settant’anni, che avevano superato due guerre e la depressione, dotate di una straordinaria vitalità. Fu per Grace uno dei lavori più divertenti e coinvolgenti, perché si trattava di momenti unici ed irripetibili, che solo le donne di quell’epoca e con quel vissuto potevano donare, proprio il carico di esperienze che portavano con sé. Un patrimonio da rendere immortale, perché chiunque potesse goderne e riconoscersi.
Successivamente, attraverso la serie Childbirth ha fissato per la prima volta nella storia, le immagini di una donna che partorisce.
Benchè fosse solita familiarizzare con le persone ed i contesti, a volte Grace scattava foto di vita quotidiana camminando, senza fermarsi: se le persone se ne fossero accorte avrebbero interrotto ciò che stavano facendo.
Nel 1957 il Picture Post chiuse, e Grace si dedicò all’attività di fotografa freelance ed all’insegnamento.
All’inizio degli anni ‘90 fotografò 43 persone novantenni per la serie The Nineties della BBC: ne fu felice perché per lei rappresentavano le persone della sua infanzia che avevano influenzato la sua generazione.
Nel 1999 è stata nominata OBE (Officer of the Order of British Empire – Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico) per il suo contributo alla fotografia, ed ha ricevuto la borsa di studio Wingate, con cui ha finanziato il suo progetto Working Mothers in Contemporary Society.
Morta l’11 gennaio 2021 all’età di 90 anni, durante gli ultimi anni della sua vita ha tenuto conferenze sulle donne nella fotografia, ed ha dedicato il suo impegno alla difesa dei diritti e del lavoro delle donne.
L’osservazione senza giudizio, la capacità di immortalare l’allegria, la gioia, il dolore, la normalità dei gesti quotidiani, non possono non trasportare chiunque guardi le sue fotografie nel contesto raffigurato, non possono non muovere sentimenti di empatia. Questo era il suo scopo: poter generare coinvolgimento ed empatia attraverso il contatto con ciò che normalmente ci sfugge quando pensiamo ad un gruppo di individui, ovvero le emozioni che ognun* di noi porta con sé. Osservare da fuori le immagini di normali momenti della vita, come una conversazione, le smorfie di una bambina in mezzo ad altre, le risate di due donne adulte che scherzano tra loro, i gesti delle mani, permette di riconnettersi all’umanità, alla spontaneità dei gesti, alla vita nel suo vero e profondo significato. Perché siamo fatt* di gesti, di emozioni, di gestualità, prima ancora che di ruoli da mettere in scena. Ma ci hanno insegnato il contrario, ovvero che noi siamo i nostri ruoli.
Grace Robertson è stata una donna di grande ispirazione per me, che da sempre riesco a trascorrere ore seduta in un locale o su una panchina, cercando di cogliere e fissare i particolari del nostro stare al mondo. Spesso non mettiamo in campo questa capacità di osservazione neanche con chi ci è di fronte, con le persone con le quali trascorriamo il nostro tempo, con noi stesse/i, fermandoci appunto ad interpretare il ruolo consono alla particolare circostanza in cui ci troviamo. Per questo avvertiamo disagio se percepiamo che qualcuno ci sta osservando o se ci fissiamo ad osservare qualcuno: ci troviamo a pensare che ci sia dell’altro oltre la pura e semplice osservazione e questo accade perché ci muoviamo all’interno di un sistema di ruoli.
Troppe persone si affrettano a collezionare video con lo smartphone da sbattere sui social se si trovano in situazioni in cui qualcuno esprime il proprio stato d’animo in pubblico, senza neanche soffermarsi a pensare se si tratti di felicità, dolore, o disagio. Condividiamo video e foto che resteranno per sempre in rete, senza neanche chiedere il consenso di chi stiamo immortalando. Abbiamo fretta di ricevere apprezzamento più che di imprimere qualcosa nella nostra mente. Abbiamo perduto la capacità di fermarci per fissare anche solo nella nostra mente ciò che accade intorno a noi e di conseguenza quella di chiederci dove siamo noi rispetto a tutto ciò.
Recentemente, a seguito dell’improvvisa scomparsa di un amico, mi sono ritrovata a guardare vecchie fotografie che ritraevano momenti di normale condivisione, di risate ed impegno politico, trascorsi insieme ad altre persone che ancora oggi fanno parte della mia vita. E mi sono ritrovata a pensare che grazie al ricordo reso immortale attraverso la fotografia, ho potuto rinnovare l’amore che provo verso tutte queste persone che hanno costruito insieme a me la vita che vivo, ed ho potuto rivivere quei precisi momenti resi indelebili con uno scatto: perché ogni singolo scatto aveva una ragione di essere preso.

 

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