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UN VIAGGIO SENZA REGOLE
15 Marzo 2023
Va bene, si ricomincia.
Il mio ultimo volo risale a marzo 2020. Poi la vita si è spostata on line, e i miei viaggi tra Italia e Baviera in auto.
Non ho avuto alcun problema a vivere quello che è stato fantasiosamente definito “distanziamento SOCIALE” ma che in effetti si è rivelato proprio tale: la distanza fisica, anziché dare vita a nuove forme di empatia in una società già gravemente colpita dalla sindrome da indifferenza cronica, non ha fatto che amplificare l’esistente. Chi era sola/o è rimasta/o nella propria solitudine, chi non lo era ha trovato nuove forme di relazione.
Socialmente distanti lo eravamo già, in molti casi.
Ebbene, non è andato tutto bene. Manco per niente. Continuo a dirlo.
Ma insomma, ce lo potevamo aspettare, l’isolamento sociale non fa mica miracoli, non fa nascere l’amore per il prossimo se non sai dove andarlo a cercare. Semmai tira fuori il torbido. La regola dell’apparenza, della performance che nulla ha a che fare con la vita vissuta, ha guidato la gara di arcobaleni e frasi motivazionali appesi al balcone. Ma si è fermata lì, per il resto si è trattato semplicemente di ampliare la schiera dei nemici colpevoli delle nostre disgrazie. A guidare l’odio, i soliti protagonisti della bufala, del sensazionalismo, delle fake news, della politichetta da quattro spicci che tutto sommato ci facciamo andare bene.
Si sa, in tempi di crisi avere dei nemici con caratteristiche riconoscibili costituisce una valvola di sfogo per chi non ha nessuna voglia di trascorrere il proprio tempo a coltivare quel minimo sindacale di sapere che serve per campare, neanche se costretto in casa a fare nulla.
La resistenza contro ogni forma di cultura è quasi un movimento sociale.
Avere nemici semplifica: durante la pandemia sono state le persone che correvano per strada, quelle che portavano fuori il cane, la popolazione anziana e non produttiva – che però era sacrificabile per badare ai nipoti costretti in casa – che veniva vaccinata prima di giovani utili alla patria che dovevano produrre, e chiunque altro venisse in mente da un giorno all’altro; finita la pandemia, i nemici sono tornati a essere i migranti, i poveri, le persone fragili, quelle che, anziché ricordarci che la vita chiede empatia, diventano il capro espiatorio delle nostre miserie umane.
Le fragilità spaventano e distolgono lo sguardo dalla propria individuale corsa. Ci hanno insegnato che fragilità è vulnerabilità sono due elementi di disturbo che occorre ignorare, così cerchiamo di non vedere le nostre e minimizziamo quelle altrui. Se non le nominiamo, non esistono.
Disturbo post traumatico da stress: queste parole sono per la prima volta uscite dalla mia bocca giusto qualche settimana fa. Non l’ho mai detto ad alta voce, ma è quello che mi è stato diagnosticato dopo un lungo periodo di psicoterapia iniziata ben prima della pandemia. Per questo non potevo sperare che tutto sarebbe andato bene. La diagnosi è arrivata nel 2019, ma io non avevo mai pronunciato queste orribili parole, perché farlo voleva dire mettere in mostra esattamente quello che ogni giorno cercavo di ripulire con grandi sorrisi, dedicando il tempo alle altre persone, cacciando i sempre in situazioni in cui chiunque poteva sfogare con me i propri problemi per poi sparire una volta spremute le mie risorse. In un mondo caratterizzato dalla sindrome del nemico e dalle più inutili e stupide narrazioni di chi c’è l’ha fatta grazie alla propria perseveranza, esporre le proprie fragilità non è proprio il desiderio con cui ci si sveglia al mattino. Semmai ci si sveglia con quello di non alzarsi dal letto per non dover affrontare quel mondo fuori.
Nominare un disturbo sostanzialmente ci fa dire alle persone “eccomi, io ora sono questa”, e io so bene cosa vuol dire nominare una fragilità e trovarsela puntata addosso come un’arma. E a me le persone avevano già fatto abbastanza del male prima attraverso il maltrattamento di gruppo, infame, spaventoso, poi attraverso l’isolamento nelle poche volte che ho avuto il coraggio di raccontarlo. Le persone che conoscono fino in fondo la mia esperienza – perché mi hanno ascoltata con il cuore – si contano sulle dita di una mano, e poi le ho volute io stessa esonerare dal vedermi ancora traumatizzata.
Va tutto bene. È la paura di perdere le persone che ci fa dire che va tutto bene. Poi ci sono quelle che lo sanno che non va tutto bene, e tengono stretta la nostra mano nonostante noi continuiamo a dire loro che ce la facciamo. Sono poche quelle che restano ogni giorno a raccogliere i cocci. È difficile lo so bene, perché io ho raccolto tonnellate di cocci altrui.
La pandemia per me è stata un rifugio sicuro: il mondo era in quella mia stessa condizione di isolamento. La mia alienazione era invisibile. Lo dissi al mio psicoterapeuta “tutto sommato non mi sta pesando” dissi “questa non è una cosa positiva” rispose. E io ignorai la sua risposta, pensai fosse troppo rigido. Forse era un mio punto di forza essere così a mio agio. E invece era la mia coperta di Linus.
Ho accumulato ansie che non conoscevo, paure mai coltivate, incubi di persone del passato che tornano, continuo a toccare con mano l’indifferenza. Provo a rimettermi in piedi, anche barcollando un po’, a volte inciampando, altre cercando di far scivolare parole e atteggiamenti che normalizzano la mia condizione. E ho deciso di farlo anche se non sto coltivando l’entusiasmo che ha sempre caratterizzato la mia vita, cerco di mantenere il motore acceso pur non accelerando. Sono fortemente aggrappata al desiderio di voler lasciare qualcosa dietro di me, all’impegno verso il cambiamento. Perché passo dopo passo io possa essere testimone del fatto che possiamo guarire noi stesse guardando al futuro, attraverso la costruzione di ponti fatti di umanità, che vanno ben al di là della scelta di procreare e che richiedono tutta la nostra capacità di osservazione e ascolto. Orecchie tese e occhi aperti, voglio lasciare testimonianza del fatto che la vita non è altro che un viaggio, non una competizione in cui a determinare il nostro successo è ciò che la società ha stabilito essere vincente. Non si tratta di competizione, non si tratta di perseveranza, né di atteggiamento positivo che porta cose buone: non è vero che chi non molla mai vince, e che il fallimento riguarda coloro che cadendo non si rialzano. Odio la parola fallimento, applicata a dimensioni della vita che hanno a che fare unicamente con le circostanze e con le opportunità che altri scelgono di metterci a disposizione. Semmai il fallimento riguarda chi non vede altro se non la propria strada. Il viaggio ha a che fare con la dimensione della scoperta, della curiosità, della conoscenza. È un’esperienza fatta di pause, di osservazione, di domande, di emozioni. Il viaggio ha bisogno di amici, non di nemici. Di sostegno, non di invidia. Di supporto, non di emarginazione. E io riparto dal viaggio.
Oggi mi trovo di nuovo qui, a New York, e prima di attraversare la strada per recarmi tra la 46th Street e la First Avenue: entro in una caffetteria. Sorseggio un caffé bollente, prendo una pausa per realizzare che sto partecipando alla CSW67 e mi emoziono un pochino, non era una parte scontata del mio viaggio.
Fuori nevica, non avevo mai visto una nevicata a New York. Quante novità.